ALBERT NOBBS

DI FRANCESCO MININNI

Qualcuno ha definito «Albert Nobbs», diretto da Rodrigo Garcia ma fortemente voluto da Glenn Close, che lo aveva interpretato anche in teatro, una favola femminista. Può anche darsi che il progetto originario, che discende da un racconto di fine Ottocento dello scrittore irlandese George Moore, avesse caratteristiche del genere. Ma di certo il film che ne è uscito sembra attraversato da tali e tante deviazioni dall’asse da diventare a tutti gli effetti qualcosa d’altro. E purtroppo non qualcosa di più, ma qualcosa di meno.

Albert Nobbs è un cameriere inappuntabile in un albergo di Dublino. Ma in realtà è una donna che, trovandosi in grave difficoltà e in condizione di solitudine, ha dovuto fingere di essere un maschio per trovare un posto nella vita. L’incontro con Hubert l’imbianchino, a sua volta donna, le aprirà nuovi orizzonti. Hubert non ha solo «cambiato» sesso, ma si è addirittura sposato con una donna trovandosi nella necessità di dividere le spese e di evitare le chiacchiere del vicinato. Così Albert, che sogna di aprire una piccola tabaccheria, medita di sposare la cameriera Helen, che a sua volta intrattiene una relazione con l’inserviente Joe. Un’epidemia di febbre tifoidea e altri eventi drammatici spariglieranno le carte del gioco. Alla fine rimarrà solo la possibilità della trasgressione. Il femminismo di cui è imbevuto il testo si concentra sul tema di una società repressiva che costringe la donna a snaturare o rinnegare la propria natura per non rimanere ai margini del mondo cosiddetto civile.

È un tema che, in forma di commedia, è stato brillantemente esposto da Blake Edwards in «Victor/Victoria». Qui, però, gli scenari cambiano. E soprattutto cambia la mano del regista. Rodrigo Garcia, figlio di Gabriel Garcia Marquez, non ha il talento paterno nel raccontare storie e commette l’errore piuttosto grave di scivolare verso il melodramma più accentuato dopo una prima parte condotta tutto sommato con un certo gusto e sul filo di una sottile ambiguità.

L’entrata in scena di Hubert, invece, fa palesemente deviare il film verso una pericolosa deriva ideologica che finisce per sostituire una sorta di elegia dell’unione lesbica al sacrosanto diritto della donna di affermare la propria identità. Ora, affermare che l’unione in matrimonio di due donne possa contribuire all’emancipazione femminile è cosa da discutere brevemente e poi rimandare al mittente. E il fatto che la sceneggiatura sia opera di Glenn Close induce a chiedersi da che parte vengano queste strane convinzioni. Ciò che sembra aver messo tutti d’accordo è proprio l’interpretazione della protagonista, in corsa per un Oscar lungamente inseguito e mai raggiunto.

A nostro modo di vedere, invece, la necessità di contenersi in tutto per rendersi credibile come uomo agli occhi del mondo ha imbalsamato Glenn Close in una immobilità che non giova né all’espressività né al realismo. Meglio Janet McTeer, anche se l’eventualità di due donne che fingono di essere uomini alla fine dell’Ottocento in Irlanda e si ritrovano a dormire nella stessa stanza è molto più teatrale che realistica.

Alla fine ci rimane la convinzione che la prima candidatura al ruolo di regista fosse di gran lunga la migliore: in quel caso sarebbe stato l’ungherese Istvàn Szabò (quello di «Mephisto») a dirigere il film e ad assicurare una competenza culturale e territoriale, cioè europea, che avrebbe sicuramente portato più acqua al mulino. Così, invece, tocca accontentarsi di un prodotto tecnicamente corretto, interpretato da attori un po’ penalizzati da personaggi-simbolo in cui non batte autentico cuore e soprattutto diretto verso una deriva ideologica che poggia su basi troppo fragili. Chi ha citato «Quel che resta del giorno» di James Ivory come precedente cui fare riferimento, ha inciampato in una distrazione difficile da giustificare.

ALBERT NOBBS (Id.) di Rodrigo Garcia. Con Glenn Close, Mia Wasikowska, Janet McTeer, Brendan Gleeson, Aaron Johnson, Brenda Fricker. IRLANDA/GB 2011; Drammatico; Colore