«A HISTORY OF VIOLENCE»

DI FRANCESCO MININNIL’idea portante dell’ultimo film di David Cronenberg, «A History of Violence», è apparentemente inquietante: che nell’americano medio convivano senza traumi interiori le due anime del buon padre di famiglia, onesto lavoratore, e del killer spietato e praticamente invincibile. Un po’ come se la stessa persona fosse contemporaneamente Martin Luther King e Malcolm X, raccontato con le modalità di un racconto il più possibile realistico, quindi lontano da aggiustamenti spettacolari.

Questo dovrebbe condurre a una riflessione su molti argomenti: la politica interna ed estera degli Stati Uniti, la violenza come fenomeno di massa e pericolosamente contagioso, il perdono utilizzato come sbiancante per le coscienze e accettazione di una situazione di fatto, i labili confini che separano l’eroe dall’assassino, l’abisso che può talvolta separare l’apparenza dall’essere. Ma c’è un’ambiguità di fondo che lascia interdetti e che rende praticamente inconfondibile il tocco di Cronenberg: il punto di vista dell’autore non è etico, ma tende a riflettere sulla violenza facendone spettacolo. Il che non vuol dire che sia sbagliata la rappresentazione della violenza: «A History of Violence» non esisterebbe senza di essa. Il compiacimento, però, impedisce a Cronenberg di prenderne le distanze e fa emergere a più riprese un gusto del colpo ad effetto che rende difficile stabilire come stiano veramente le cose.

E non basta. La vicenda di Tom Stall, che diventa un eroe per aver ucciso due criminali e subito dopo, braccato da gente di Filadelfia che lo chiama Joey Cusack, rivela una doppia identità che neanche moglie e figli avevano mai sospettato, non è molto diversa da quella raccontata da Renny Harlin in «Spy», dove era Geena Davis a trasformarsi da madre di famiglia in agente con licenza di uccidere. È vero che il film di Harlin virava subito verso il fumetto iperrealistico, ma è anche lecito pensare che una macroscopica disparità di giudizi possa essere dovuta al fatto che il nome Cronenberg crea aspettative diverse e, in un certo senso, influenza a priori. A noi sembra invece che, senza nulla togliere alle argomentazioni iniziali, lo stile della rappresentazione adottato dall’autore riconduca spesso «A History of Violence» in un ambito più spettacolare che riflessivo. Quindi ambiguo dove invece serviva il massimo della chiarezza.

Ricordiamo che il film è tratto da una graphic novel di John Wagner, che Viggo Mortensen è bravo, che Ed Harris e William Hurt sono bravissimi e che la scena di gran lunga più impressionante orchestrata da Cronenberg è quella finale quando Tom/Joey, dopo aver fatto una strage, torna in famiglia. La figlia gli porta piatto e posate, il figlio gli passa il vassoio della carne. Così l’assassino ridiventa buon padre di famiglia, in una parodia di perdono che in realtà è soltanto accettazione di qualcosa che, intimamente, ci assomiglia.

A HISTORY OF VIOLENCE (Id.) di David Cronenberg. Con Viggo Mortensen, Maria Bello, Ed Harris, William Hurt. USA 2005; Thriller; Colore