4 MESI, 3 SETTIMANE, 2 GIORNI
DI FRANCESCO MININNI
Mettiamola così: se, di ritorno dalle vacanze, sentiste la necessità di passare una serata al cinema con un film scacciapensieri o, come si dice, leggero, lasciate perdere il rumeno «4 mesi, 3 settimane, 2 giorni». Vincitore della Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes, evita ogni dolcezza, ogni accomodamento, ogni simpatia e va diritto al cuore di un regime che, impedendo una vita di libere scelte, finisce per azzerare ogni principio morale portando la gente a fare qualunque cosa pur di non uscire dai binari di una vita che qualcun altro ha già tracciato e deciso. Cristian Mungiu, adottando uno stile ruvidamente realistico che oscilla tra la livida Polonia di Kieslowski, le ricerche umane dei Dardenne e i volti qualunque (ma quanto espressivi ) del neorealismo di Rossellini e De Sica, racconta una storia spietata e senza speranza che, andando a toccare il tema sempre scottante dell’aborto, rischia di suscitare un dibattito che non è nelle intenzioni dell’autore. D’altronde, il tema è ideale per mettere in chiaro le idee di Mungiu sul mondo in cui viviamo (meglio: nel quale loro vivono). Ma la domanda non è se Mungiu sia favorevole o contrario all’aborto, quanto piuttosto se il fenomeno descritto investa una sfera etica oppure se sia soltanto uno dei tanti elementi che aiutano a capire un regime molto diverso dal nostro.
Nel 1987, quindi in pieno regime di Ceausescu, Gabita scopre di essere incinta. È una studentessa del politecnico e una gravidanza da ragazza madre le chiuderebbe ogni strada di studio o professione. Disorientata, timorosa, talora quasi catatonica, Gabita si aggrappa all’amica e compagna di stanza Otilia. Ottenuto un appuntamento con un «tecnico» che, pur rischiando la galera, sembra quasi un funzionario di partito nella sua fredda e lucida disamina di tutte le varianti del caso, Gabita si sottopone all’intervento in una camera d’albergo. E l’avvenire resta terribilmente orizzontale.
Non si resta indifferenti al gelo che il film sparge a piene mani. Benché narrato con lo stile più oggettivo possibile, con i ritmi lenti che discendono dalla scelta di raccontare in tempo reale, lucidamente freddo nella disamina di un mondo che sembra eliminare i sentimenti in quanto di ostacolo al corretto procedere della vita sociale, «4 mesi, 3 settimane, 2 giorni» finisce per coinvolgere ed appassionare portando alla prevedibile conclusione di una profonda tristezza e di un preciso malessere. Con i volti pallidi e dai lineamenti piuttosto duri di Anamaria Marinca e Laura Vasiliu, con quello di Vlad Ivanov (dal nomignolo poco rassicurante di Mister Bebe) che potrebbe essere la perfetta rappresentazione del cinismo, con una fotografia impersonale che illumina freddamente colori poco caratterizzati, in quartieri popolari rigorosamente intercambiabili, il film raggiunge il proprio scopo tra un piano fisso e un piano sequenza senza risparmiare alcunché delle tristezze che mette in scena. E, per quanto sia lontanissima da Mungiu l’idea di spettacolarizzare il fenomeno, ci sembra che la cruda rappresentazione del feto sul pavimento del bagno sia l’unica cosa del film a trascendere la misura. Resta il fatto che «4 mesi, 3 settimane, 2 giorni» è la testimonianza di un cinema vivo e, per quanto possibile, coraggioso. Soprattutto nell’affrontare un argomento che, come certi commenti della stampa hanno già evidenziato, rischia di essere travisato a scopi puramente polemici.