Opinioni & Commenti

Rubare è un peccato contro l’umanità. Punto e basta

di Domenico Delle Foglie

Si scrive «corruzione», ma si legge «questione morale». Eppure queste parole, sempre rumorosamente presenti nelle cronache giudiziarie e politiche, non bastano più a spiegarci il presente. Tanto che in questi giorni, per descrivere quanto sta accadendo nel mondo degli appalti pubblici, con i suoi «comprati» e i suoi «venduti» (tutti rigorosamente a carico dei cittadini contribuenti), si cercano parole «nuove». Vedi il «sistema gelatinoso» evocato in un’intercettazione telefonica tra due architetti, ovvero due esponenti della cosiddetta società civile. Un dialogo reso pubblico nell’ambito dell’inchiesta giudiziaria che si è abbattuta sulla Protezione civile e che ha spinto il governo a porsi l’obiettivo di aggravare le pene per i reati di corruzione.

La ricerca di parole «nuove» è il segno dell’usura, forse irrimediabile, delle «vecchie». Usurate nei significati attribuiti da un’opinione pubblica sempre più assuefatta e quasi incapace di reagire. Forse anche rassegnata all’idea che in democrazia questo sia uno dei prezzi da pagare, considerato che altre forme di governo, vedi i sistemi totalitari, sono corrotti per loro stessa natura. Sino al punto da evocare, nella stessa figura del dittatore, la personalizzazione fisica della corruzione.

In democrazia, la corruzione è possibile grazie alla stessa libertà che questo regime garantisce e che consente a uomini e gruppi di agire in vista del bene comune (interesse generale, nella versione più laica) oppure nella prospettiva del solo interesse privato, familistico o lobbistico. Mettendo così in campo comportamenti più o meno socialmente responsabili. Per non parlare della spinta, presente nella politica moderna, a ricercare i risultati a tutti i costi, a perseguire l’efficacia operativa, a separare i mezzi dai fini, così da non interrogarsi più sulle dimensioni etiche che le scelte politiche portano con sé. Qualcuno in questi giorni, per spiegare quanto sta accadendo, ha evocato Niccolò Machiavelli. Noi ricordiamo, piuttosto, Francesco Guicciardini e la sua spregiudicata ricerca del «particulare». La sostanza, però, resta la percezione diffusa di vivere nell’orizzonte di un sistema corrotto. Ecco perché occorre riscoprire parole «antiche», piuttosto che cercarne di «nuove», pronte ad essere usurate dal consumo politico-mediatico che le allontana inesorabilmente dai «fatti» e le pone in una sorta di limbo linguistico, private della forza necessaria per scuotere le coscienze intorpidite. Per i cristiani, e forse non solo per loro, conviene chiamare in causa alcune parole antiche: «Rubare è un peccato». Le ha pronunciate con la consueta chiarezza Benedetto XVI: «Si dice: ha mentito, è umano, ha rubato, è umano. Ma questo non è il vero essere umano. Umano è essere generoso, umano è essere buono, umano è essere un uomo della giustizia…».

Ecco una catechesi (o educazione) dell’essenziale per tutti gli uomini: rubare è un peccato contro l’umanità. Non tornare a raccontare questa nuda verità, non spiegarla ai nostri bambini nelle catechesi, non ricordarla con passione nelle omelie, non parlarne con sincerità nelle nostre famiglie, non indicarla come dovere ai giovani, è un’occasione sciupata per migliorare la qualità della nostra malandata democrazia.