Toscana

RU486 in ambulatorio? Così la donna viene lasciata più sola di fronte all’aborto

È pronta una delibera della Giunta regionale toscana che permette l’esecuzione dell’aborto farmacologico al di fuori dell’ambiente ospedaliero, in strutture territoriali di tipo ambulatoriale. La notizia è stata accolta con entusiasmo negli ambienti pro aborto. La consigliera regionale Serena Spinelli, membro della commissione Sanità e politiche sociali, ha subito commentato la notizia dicendosi «soddisfatta di questa presa di posizione della Giunta Regionale. […] che amplia la possibilità di utilizzo della pillola per l’interruzione di gravidanza, rendendone possibile l’assunzione anche in strutture territoriali dotate dei requisiti previsti. In questo modo si amplia la possibilità di scelta del metodo farmacologico, che è meno invasivo e che non necessita di ospedalizzazione».

Lasciando da parte ogni altra considerazione di natura etica, gli aspetti medici legati a questa delibera della Giunta creano non poche perplessità. Ricordiamo che l’aborto farmacologico in Italia si può fare entro 49 giorni dall’ultima mestruazione ovvero entro 5 settimane dal concepimento e comporta varie fasi. La prima è l’assunzione del mifepristone, un farmaco noto anche con il nome – usato durante le sperimentazioni – di RU486: esso va a interagire con i recettori del progesterone, bloccandone l’azione del progesterone sul rivestimento interno e la muscolatura dell’utero e provocando, infine, la morte dell’embrione. Dopo due giorni si somministra una prostaglandina per completare l’espulsione dell’embrione. L’esito dell’aborto farmacologico viene controllato attraverso un’ecografia che dovrà essere eseguita due settimane dopo il trattamento. Non è possibile prevedere a priori il momento in cui avverranno la morte dell’embrione e la sua successiva espulsione. Dalla letteratura scientifica è noto che, mediamente, il 5% delle donne espelle l’embrione dopo l’assunzione del mifepristone, il 60% entro 4-6 ore dalla prostaglandina, il 20-25% entro 24 ore e il 10% nei giorni successivi. L’efficacia abortiva del metodo è del 93-95% e, quindi, nel 5% circa dei casi è necessario sottoporsi comunque a un intervento chirurgico di revisione della cavità uterina per completare l’aborto.

L’aborto farmacologico è certamente meno invasivo dell’aborto chirurgico eseguito con l’usuale metodo della isterosuzione di Karman e non richiede anestesia, ma, contrariamente a quanto si vuole far credere, non è scevro da rischi e non è più sicuro dell’aborto chirurgico. In alcune donne l’espulsione dei frammenti di mucosa e dell’embrione avviene in modo rapido e praticamente indolore, in altre è una esperienza dolorosa e traumatica. Emorragie e infezioni sono le complicanze più temibili e per questo, quando il farmaco fu  introdotto in Italia nel 2009, il Ministero della salute fu estremamente chiaro e tassativo sulla necessità di una sua assunzione in ambiente ospedaliero. Nelle linee guida approvate dal Ministero della salute nel giugno del 2010 si affermava che alla donna «deve essere fornita in modo chiaro l’informazione che l’aborto farmacologico potrà essere effettuato solo in ricovero ordinario, nella maggior parte dei casi della durata di tre giorni, fino cioè all’espulsione del materiale abortivo». Scusate questo modo di parlare brutale: sto citando. Si aggiungeva che è «fortemente sconsigliata la dimissione volontaria contro il parere dei medici prima del completamento di tutta la procedura perché in tal caso l’aborto potrebbe avvenire fuori dall’ospedale e comportare rischi anche seri per la salute della donna». Infatti «I rischi connessi all’interruzione farmacologica della gravidanza si possono considerare equivalenti all’interruzione chirurgica solo se l’interruzione di gravidanza avviene in ambito ospedaliero». A questo punto, l’affermazione della Serena Spinelli che l’aborto medico non necessita di ospedalizzazione suona almeno stonata.

L’uso dell’aborto farmacologico in Italia è in crescita e si aggira sul 15% di tutti gli aborti procurati, pur con forti diversità fra regione e regione. Nel mondo le percentuali sono molto più elevate e si parla, per esempio, di oltre il 50% in Francia e di oltre il 60% in Svezia.  Alla crescente diffusione dell’aborto medico in Italia, si è accompagnata una immediata disattenzione alle indicazioni espresse più volte dal Ministero della Salute, dall’AIFA e dal Consiglio Superiore di Sanità. In alcune regioni il mifepristone viene somministrato in regime di day hospital con il risultato che la maggior parte degli aborti di fatto avviene fuori dell’ambiente ospedaliero. In altre regioni si ricorre al «doppio ricovero»: la donna assume il primo farmaco e firma le dimissioni volontarie, per poi tornare dopo due giorni per assumere la prostaglandina. Dal punto di vista organizzativo, con gli ospedali perennemente in carenza di posti letto, e dal punto di vista dei costi attenuare le cautele della legge è senza dubbio vantaggioso, ma la donna viene concretamente lasciata sola di fronte a possibili eventi rischiosi, quali emorragie o infezioni o aborti incompleti nei quali, cioè l’embrione si è distaccato, ma non è stato espulso. Soprattutto la donna viene comunque lasciata sola a vivere l’esperienza di un aborto. Unico legane con i medici è spesso un numero di telefono da chiamare in caso di necessità. In questo quadro complesso e contraddittorio si collocano i progetti di distribuzione dei farmaci abortivi in ambito ambulatoriale. In Lazio questo accade dal 2017 e la Toscana si sta allineando.

L’aborto, comunque venga attuato, è lo sradicamento di una esistenza fragile da una donna e il mezzo con quale si sopprime una vita, sia esso medico o chirurgico, non cambia la realtà delle cose. Stupisce, però, che la salute delle donne sia così poco tutelata per motivi economici e per ancora più forti motivi ideologici. La spinta verso una semplificazione delle procedure abortive, anche a costo di aumentare i rischi per la salute fisica e psichica delle donne, viene propagandata negli ambienti pro aborto come un passo avanti nella attuazione della legge 194. Per certuni, infatti, sembra che le decisioni abortive siano più espressive della libertà delle donne che non le scelte procreative e che, pertanto debbano essere sostenute con tanta più forza, costi quel che costi, anche in termini di salute procreativa. Basta poi fare un rapido giro su internet per accorgersi che qualche gruppo pensa all’aborto farmacologico come possibilità di un aborto-fai-da-te, come una presa di potere delle donne sul proprio corpo per svincolarsi dal prepotere della medicina, quasi una versione aggiornata della pompa da bicicletta della Bonino. In questo stesso contesto ben si comprende l’agguerrito movimento contro il diritto alla obiezione di coscienza da parte del personale sanitario e la polemica sugli aiuti pubblici ad associazioni pro vita, come se Stato e Regioni dovessero sostenere solo le associazioni pro aborto e la difesa della maternità non fosse anch’essa una scelta di laica civiltà.