Cultura & Società
Roberto Benigni: quando un comico parla di Dio
Esce in libreria il volume «Roberto Benigni. Da Berlinguer ti voglio bene alla Divina Commedia, il percorso di un comico che si interroga su Dio». Il libro, pubblicato dalla Società editrice fiorentina, è curato da Riccardo Bigi e raccoglie i saggi del critico cinematografico Francesco Mininni e del teologo mons. Andrea Bellandi. In appendice anche l’intervista rilasciata a Toscana Oggi nel 1999 dal priore di Vergaio don Alfio Bonetti e il dialogo su Dante tra Roberto Benigni e il poeta Davide Rondoni, pubblicata su Avvenire nel 2007.
Un libro sul Roberto Benigni che parla di Dio. Su quel lato dell’attore e del comico che nessuno ha mai provato ad analizzare, eppure così evidente.
Dall’improbabile Gesù di «Tu mi turbi» al toccante Padre Nostro de «La Tigre e la neve», tutti i lavori di Benigni mostrano un interesse ricorrente per i temi religiosi: Dio e l’uomo, la creazione e il giudizio universale, angeli e diavoli, la nascita e la morte, il destino dell’uomo, il senso della vita.
Lungi dalla pretesa di dare giudizi, mettere etichette o «cattolicizzare» il più amato tra i comici italiani contemporanei, il libro accompagna il lettore lungo il percorso artistico di Benigni, dai film alle letture dantesche.
Il volume è suddiviso in due parti scritte dal critico cinematografico Francesco Mininni, che si occupa delle tematiche religiose nei film di Benigni, e dal teologo mons. Andrea Bellandi che invece affronta il capitolo relativo alle letture dantesche e alla Divina Commedia raccontata dall’attore di Vergaio. Due vie per comprendere quella «cultura popolare» che anima e ispira il lavoro di Roberto Benigni e che, come spiega Riccardo Bigi nella sua introduzione, «è intrisa fino al midollo di religiosità». Una religiosità che può esprimersi nella presa in giro, nella battuta, nell’irrisione come nell’esposizione appassionata di sofisticate dottrine teologiche che si nascondono dietro i versi di Dante. Perché in fondo la comicità e la poesia (come ogni forma d’arte) sono strade per dire quelle cose che il linguaggio umano, altrimenti, non riesce a esprimere. (nella foto, Roberto Benigni scherza con il vescovo di Prato, Gastone Simoni)
di Francesco Mininni
La storia di ognuno di noi è, in principio, una pagina bianca. La riempiremo con il nostro inchiostro, le nostre interpunzioni, la nostra calligrafia, i nostri a capo, il nostro stile. E quella sarà la forma. La riempiremo con il cuore, con il cervello, con l’anima. E quello sarà il contenuto. Certo, la pagina si trasformerà in due pagine, in dieci pagine, in un libro, forse in un’enciclopedia. Tutto starà a vedere se avremo qualcosa da dire e se sapremo dirlo nel modo giusto. Useremo nastro correttore, bianchetto, gomma, scolorina. Faremo il possibile perché non ci siano errori. E siccome siamo uomini, ne faremo tanti lo stesso. Ma ci piacerebbe arrivare in fondo con la consapevolezza di aver fatto qualcosa, di aver viaggiato per andare avanti, di aver scoperto qualcosa dentro e fuori di noi che, se anche esisteva dal principio, a noi sembrerà di aver scoperto per primi. E sarà proprio così. Perché ogni bambino che scopre l’acqua calda è il primo a farlo. Poi ci saranno l’acqua tiepida, l’acqua fredda, l’acqua piovana, l’acqua corrente, l’acqua gassata, il ghiaccio, la grandine. Passaggi, scoperte successive, tappe di un cammino che durerà fino all’ultimo e che, dopo l’ultimo, ricomincerà con qualcun altro.
Ci piace pensare a Roberto Benigni come a un artista itinerante che lungo il cammino, sensibile alla natura e all’amore, alla vita e ai doni ricevuti (sì, proprio i talenti dei quali ci verrà chiesto conto al momento opportuno), al mondo intorno a sé e a tutto quel che piace o non piace, alle prime pagine dei giornali e ai libri di storia, alla Divina Commedia e al Vangelo (da citare con reverenza o sbeffeggiare a seconda dell’occasione e dello stato d’animo), ogni tanto si sofferma e riflette. Ci piace pensare a Benigni come a un giullare che, nell’atto di ridicolizzare il potente, sia anche ben consapevole che è quello stesso potente a dargli da vivere. E ci piace pensare che in quel momento nella sua testa piena di idee e di storie, di battute e di ragionamenti, di barzellette e di filosofia, di bestemmie e di preghiere, scatti un meccanismo che lo porti a chiedersi un perché, a rispondersi e a scegliere la soluzione più sensata. Perché, se è vero che le radici non si dimenticano, che la formazione è fondamentale per il nostro essere, che l’imprinting ci segna per la vita, è anche vero che nessuno rimane pedissequamente uguale a se stesso. Come si dice, solo gli imbecilli non cambiano opinione. Si cammina. Si cresce. Si cambia. E non è detto che il luogo in cui volevamo arrivare sia quello giusto per noi. E soprattutto nessuno dice che ci si debba arrivare per forza.
Se dovessimo mostrare a qualcuno che non conosce Roberto un’opera che lo rappresenti appieno in modo da introdurlo all’arte del ragazzo di Vergaio, ci troveremmo in forte imbarazzo. Un’opera sola non basta. Per questo, dopo attenta riflessione, sceglieremmo Berlinguer ti voglio bene, diretto da Giuseppe Bertolucci ma a tutti gli effetti creatura di Benigni. Poi un trait d’union che dovrebbe essere Johnny Stecchino. Infine La vita è bella, che ha aperto a Roberto la via del Grand Prix della giuria a Cannes, dei Bafta, dei Cèsar e dell’Academy Award (meglio conosciuto come Oscar).
Ma non parleremmo dei premi. Ci limiteremmo ad aspettare che il nostro interlocutore ponesse la sua domanda. «E questi film vengono dalla stessa persona?». La risposta è scontata. Certo, vengono dalla stessa persona. Una persona che cammina, cresce e cambia. Una persona che, rimanendo fedele a se stessa, allarga i propri orizzonti. Una persona che a lungo andare, guardandosi allo specchio, ha capito che lo sberleffo da solo non basta a esprimere i sentimenti che ha dentro. E che, a rischio di attirarsi qualche accusa di «tradimento», ha deciso di fare e dire di più. Certo, continuando a ridere e scherzare, a dire parolacce e a irridere il capo del Governo, a mantenere un delicatissimo equilibrio tra il clown di Vergaio e il Roberto Benigni capace di far riflettere, di commuovere e di spingere quasi a forza verso la poesia. Roberto, che ama Dante Alighieri come un fratello, sa benissimo che il sommo poeta, pur parlando per metafore di argomenti assai scabrosi, non si permette licenze salaci e che, cercando con il lanternino, si può al massimo individuare il verso conclusivo del canto XXI che suona «Ed egli avea del cul fatto trombetta». E quindi sa che sono molteplici le forme di espressione per far giungere ad altri il proprio pensiero. Che c’è un momento per l’una e per l’altra. Che ci sono argomenti e argomenti. Che la parolaccia può essere un mezzo, mai il fine.
Tra Berlinguer ti voglio bene e La vita è bella non passano soltanto vent’anni. Ci sono un percorso, una riflessione, un cambiamento di punto di vista, un diverso amore per la vita, una differente interiorità che, se non ci prendiamo il disturbo di individuare ripercorrendo tappa per tappa la carriera più che trentennale di Roberto, risulteranno del tutto incomprensibili.
Le sue pagine bianche da riempire sono ancora tante. E tante, invece, sono state già riempite. Non è forse la storia di ognuno di noi?
di Andrea Bellandi
Metto subito le mani avanti. Da buon toscano, se c’è una cosa che noi non sopportiamo è che altri pensino di sapere come noi la pensiamo E se, per caso, pensassimo davvero come gli altri affermano, non gliela daremmo mai vinta: diremmo l’opposto! Figuriamoci il Benigni! Quindi lungi da me e da queste pagine cercare di esporre il «Benigni-pensiero», soprattutto in un ambito quale quello dei significati e valori più radicali e decisivi della vita – il suo eventuale «senso», il valore dell’uomo, parole come «verità», «destino», «amore» e soprattutto la realtà di Dio e del mondo soprannaturale – che rappresentano il punto più segreto dell’animo umano, di fronte al quale bisogna sostare con rispetto, in quanto solo la persona stessa e – per chi ci crede – a buon diritto Dio può entrarvi.
Per questo il mio contributo si limiterà a sintetizzare e a ordinare – secondo una scansione tematica unicamente da me costruita – alcuni fra gli innumerevoli commenti, sottolineature, evidenziazioni, richiami fatti dal Nostro durante le numerose e apprezzatissime lecturae Dantis fatte in giro per l’Italia, e non solo, in questi anni. ( )
Il giudizio finale lo lascio al lettore. Mi sembra tuttavia necessario anzitutto riconoscere al nostro artista il merito di aver riproposto – magari facendo talvolta storcere il naso a qualche intellettuale – il testo della Divina Commedia al grande pubblico, facendolo uscire dal duplice «carcere» in cui da anni era per così dire, volutamente o meno, incatenato: quello scolastico, in cui le ragioni profonde e i richiami esistenziali dell’opera raramente venivano compresi (anche perché raramente proposti ) e quello dell’agorà storico-letteraria, in cui essa costituiva terreno di dotte, quanto assai ristrette, dispute interpretative.
Grazie anche a Benigni, la Commedia tornava – e sta tornando – a essere testo appassionante e ricercato da molte persone che desiderano coglierne la portata educativa, magari anche volendo approfondirne l’origine e il contenuto spirituale. Un secondo merito del Nostro, legato al precedente, è stato quello di «mettersi lui stesso in gioco» di fronte al testo, accettando consapevolmente di correre un rischio duplice: quello di deludere i numerosi fans del Benigni comico e quello di incorrere negli strali degli addetti ai lavori: letterati, intellettuali, perfino alcuni ecclesiastici. Non sappiamo quanto la scommessa sia stata vinta; è certo però che, dopo il suo tentativo, il capolavoro di Dante è ritornato prepotentemente attuale. Ciò non vuol dire che l’interpretazione datane dall’artista toscano sia sottoscrivibile in ogni sua parte, o esaurisca tutta la sconfinata profondità, soprattutto teologica, dell’opera medesima; tuttavia non si può negare che egli vi si sia confrontato lealmente, mettendo in gioco tutta la ricchezza della propria umanità.