Cultura & Società
Rivoluzione d’ottobre 100 anni dopo: sette domande per capire quell’evento
Il 10 ottobre del 1917 secondo il calendario giuliano mantenuto dalla Chiesa ortodossa, i vertici del partito operaio socialdemocratico russo – dominato dall’ala massimalista e rivoluzionaria detta «bolscevica» – dichiararono che una sollevazione armata contro il governo guidato da Aleksandr Kerenskij e composto da socialdemocratici moderati («menscevichi») e da socialrivoluzionari era ormai inevitabile. La scissione tra bolscevichi e menscevichi all’interno del partito operaio socialdemocratico, verificatasi nel 1903, era ormai divenuta irreversibile e insanabile. Due settimane dopo l’annunzio della sollevazione, cioè il 25 ottobre, il leader bolscevico Vladimir Ilich Ulianov (che usava lo pseudonimo di Nicolaj Lenin) annunziava che i bolscevichi avevano preso il potere e che iniziava dunque il governo dei soviet, i consigli di operai e di contadini. Cominciava così la seconda rivoluzione russa di quell’anno, detta «d’Ottobre» perché iniziata appunto in tale mese (ma che si verificò in quello di novembre secondo il nostro calendario gregoriano, in anticipo sul giuliano di 13 giorni, sarebbe stato adottato anche dalla Russia il 14 febbraio successivo).
Che cos’era accaduto? Come si era potuto arrivarci? E quale fu, qual è il senso di quel rivolgimento profondo? E fu davvero un cambiamento totale? E quanto durò? E in quale misura interessò la sola Russia, in quale anche il resto del mondo? E che cosa ne resta oggi? Queste sono solo sette domande, le principali forse, tra le molte che sarebbero necessarie per comprendere a fondo un evento del quale si torna oggi a parlare forse non solo in coincidenza con il suo centenario.
I precedenti e il contesto. Alla fine dell’Ottocento, l’impero zarista si estendeva su un territorio immenso, corrispondente alle future URSS e CSI alle quali vanno aggiunte le attuali Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia. La Russia, dopo essersi confrontata duramente per circa tre secoli (da quando il suo nucleo storico era ancora il granprincipato di Moscovia) con l’impero ottomano che le sbarrava il passo occupando gli stretti che le avrebbero consentito di giungere al Mediterraneo e le contendeva il confine caucasico, aveva dovuto accettare l’arbitrato del principe di Bismarck, cancelliere del nuovo impero federale tedesco (il «Secondo Reich»), che con il trattato internazionale del 1878 si era proposto quale mediatore per tutte le tensioni esistenti nel macrocontinente eurasiatico. Quel trattato pose fine a un’ennesima guerra tra Russia e impero ottomano ma lasciò scontenta la Russia zarista, la quale intanto era impegnata da oltre mezzo secolo con la Gran Bretagna (anch’essa divenuta, nel ’77, impero con la proclamata sovranità sull’India) in quello che gli inglesi definirono il Great Game, il «Grande Gioco»: la Russia, ambiva a espandersi in Asia verso sud, dalla Siberia verso l’Asia centrale e la catena dello Hindu Kush, mentre l’Inghilterra stava risalendo dai confini indiani in direzione della medesima catena. La posta in palio era da parte di entrambi l’acquisizione id quanto più si potesse soggiogare del continente africano in modo da sfruttarne le ricchezze e condizionarne i mercati. Tutte le potenze europee, nel contempo, guardavano ai due «imperi ammalati», l’ottomano e il cinese, e ne aspettavano la scomposizione – cercando anche di affrettarla – per impadronirsi di quanto sarebbe stato più possibile dei loro territori e delle loro ricchezze. Alla partita si stava aggiungendo l’impero giapponese, che con la «rivoluzione Mieji» aveva affrontato per volontà imperiale (una «rivoluzione dall’alto») un rapido e profondo processo di occidentalizzazione civile, economica e del costume pur non rinunziando, nella sua vita privata e intima individuale e collettiva, alle sue millenarie tradizioni.
Dopo il 1878, tuttavia, l’Europa intera si era resa conto che il fattore dinamico al suo interno era ormai la straordinaria forza economica, finanziaria, tecnologico-scientifica, militare e culturale rappresentata dalla nuova Germania unita sotto la dinastia prussiana degli Hohenzollern, alla quale nel ’70 era stata attribuita la corona imperiale. Il mondo mitteleuropeo era ormai saldamente unito attorno dall’alleanza irreversibile (dopo la guerra del 1866, vinta dalla Prussia contro Austria e Baviera) tra gli imperi tedesco degli Hohenzollern e austroungarico degli Asburgo (la «doppia monarchia», imperiale d’Austria e regia d’Ungheria). Tale imponente compagine aveva determinato un rinnovato assetto delle alleanze internazionali: la Russia e la Francia si erano unite nel 1882 in un trattato che evidentemente mirava a porre le premesse per una morsa che avrebbe serrato la Germania da est e da ovest, mentre Austrungheria e paesi balcanici erano un ostacolo obiettivo all’eterno programma russo di raggiungimento della costa mediterranea e l’impero ottomano si avvicinava sempre di più a quelli tedesco e austrungarico affidandosi soprattutto alla Germania per la sua modernizzazione (sviluppo delle banche, delle industrie e del sistema ferroviario).
In questa nuova situazione, Russia e Inghilterra compresero che il Great Game doveva esser messo da canto e pervennero nel 1897 a un trattato di amicizia. Il giovane stato monarchico italiano, nato anche grazie a una vecchia alleanza tra il Piemonte e la Francia, aveva frattanto voltato le spalle all’antico alleata (la «sorella latina») e, dopo che essa aveva conquistato nel 1882 la Tunisia che gli italiani ritenevano una terra nordafricana di loro naturale pertinenza, si era andata avvicinando alla Germania e perfino all’odiata Austria per stipulare con loro quella che fu detta la «Triplice Alleanza»: ma l’Inghilterra, che possedeva le tre chiavi del controllo del Mediterraneo (lo stretto di Gibilterra; l’isola di Malta, fondamentale per il controllo delle rotte tra la parte occidentale e quella orientale del suo specchio d’acqua; il canale di Suez, inaugurato nel 1869 e passato l’anno successivo con la maggioranza del pacchetto azionario che lo gestiva, di proprietà della Francia, all’Inghilterra dopo la sconfitta di Napoleone III contro i prussiani a Sedan), corteggiava l’Italia ch’era un molo naturale proteso sul «suo» mare. In meno di mezzo secolo si erano insomma create le permesse per un conflitto mondiale che avrebbe fatalmente compromesso la stessa egemonia coloniale dell’Europa sul resto del mondo.
La Russia zarista, sempre più protesa all’espansione verso il sudest europeo, l’Asia centromeridionale (essa condivideva con l’Inghilterra anche il controllo dell’impero persiano) e l’Oceano pacifico, era però molto debole al suo interno. Paese eminentemente agricolo sfruttato da un’oligarchia di nobili grandi proprietari terrieri, aveva con fatica avviato i primi passi sulla via della modernizzazione e dell’industrializzazione: ma si era con ciò andato rapidamente creando un nuovo ceto operaio e, con esso, le premesse per la «questione sociale» alla quale il governo zarista era impreparato mentre il resto d’Europa ben la conosceva. Le istanze anarchiche e socialiste, già presenti nella società russa dell’Ottocento, si erano andate precisando soprattutto nelle nuove istanze determinate dall’ideologia marxista e dal «socialismo scientifico». Il 9 gennaio si ebbe, a San Pietroburgo, la «Domenica di Sangue»: esercito e polizia spararono su un’immensa folla riunita attorno al Palazzo d’Inverno per una manifestazione pacifica, mentre le formazioni dei cosacchi a cavallo la caricavano: il bilancio totale fu di oltre un migliaio di morti. Nel giugno successivo l’ammutinamento dell’equipaggio della corazzata Potëmkin, della flotta del Mar Nero, fu la causa occasionale di una serie di rivolte nella città portuale di Odessa: anche in quel caso il governo zarista non trovò di meglio che affidarsi a una cieca repressione, mentre la popolarità della corona – circondata fino ad allora da un vero e proprio alone sacrale – calava vertiginosamente e la contestazione nasceva anche in ambienti della stessa fedelissima Chiesa ortodossa.
Genesi e sviluppo del movimento rivoluzionario. Una vera e propria rivoluzione sembrava alle porte. Lo zar Nicola II corse ai ripari firmando, il 17 ottobre di quell’anno, un «Manifesto» che concedeva alcune libertà civili (quali quella di stampa) e istituiva un parlamento (la Duma) a base elettiva ma dai limitati poteri consultivi. Una sciagurata guerra perduta contro il Giappone per il controllo dell’Oceano pacifico settentrionale compromise ancor più l’immagine della famiglia imperiale e il prestigio del suo governo, minato anche da vicende come quelle dell’ambiguo imporsi a corte del prestigio di una sinistra figura di monaco carismatico, Rasputin.
Lo zar pensò a quel punto che l’impegnarsi in una grande questione internazionale avrebbe distolto il popolo russo dalle questioni interne legate alla sperequazione sociale e alla carenza di riforme: e si gettò nell’intrico della politica balcanica, dove i popoli slavi e ortodossi tradizionalmente guardavano alla Russia come alla loro grande protettrice contro ottomani e austrungarici. Ai primi di luglio, in risposta all’ultimatum dell’Austria alla Serbia dopo l’attentato di Sarajevo, lo zar ordinò la mobilitazione generale dell’esercito: l’immediata risposta della Germania, impegnata nella tutela dell’alleato asburgico, fu il 19 di quel mese la dichiarazione di guerra: Nicola II rispose il 2 agosto con analoga dichiarazione mentre un’ondata di patriottismo a forte tinta antigermanica invadeva il paese e, il 18 agosto, la capitale Pietroburgo rinnegava il suffisso germanico -burg («città», in tedesco) per assumere quello di -gorod («città», in russo) e chiamarsi Pietrogrado. Ma anche la dichiarazione di guerra e il mutamento di nome della capitale denunziavano il malumore del paese: attraverso la seconda misura i ceti medioborghesi e intellettuali scoprivano un antigermanesimo che non colpiva solo la nemica Germania, bensì anche la corte ch’era piena di nobili tedeschi; mentre nel proletariato industriale e contadino, ormai egemonizzato in misura crescente dai movimenti socialisti e anarchici tra i quali, fra l’altro, la politica sociale del governo tedesco era oggetto di diffusa ammirazione (e i socialisti tedeschi avevano esplicitamente affermato la oro leale solidarietà nei confronti del paese in guerra), serpeggiava una forte corrente neutralista e pacifista.
Nei successivi due anni, la guerra contro Germania, Austrungheria e Turchia volse progressivamente al peggio: né ci si poteva aspettare un sostanziale aiuto da Francia e Inghilterra. Le disastrose notizie dal fronte, dove le perdite erano ingenti, altro non fecero che abbattere il morale della popolazione, mentre sempre meno sostenibili divenivano le privazioni crescenti che colpivano una compagine civile sempre più composta da donne, vecchi e bambini perché gli uomini validi erano al fronte. D’altronde, molti erano gli operai (spesso anziani o invalidi di guerra) che dovevano essere sottratti all’esercito per garantire la produzione industriale: il 9 gennaio del ’17 si verificò a Pietroburgo un gigantesco sciopero per commemorare la «Domenica di Sangue» di dodici anni prima: un drastico razionamento di viveri, annunziato dal governo il 19 febbraio successivo, dette l’avvio a un’infinita catena di scioperi e di disordini durante i quali si chiese esplicitamente la fine della guerra. Il 26-28 febbraio lo zar ordinò di nuovo all’esercito di sparare sui manifestanti e tentò di sciogliere la Duma, che non obbedì all’ingiunzione: i soldati inviati a reprimere le proteste si univano dappertutto ai manifestanti e la guarnigione militare di Pietrogrado insorgeva. Ormai, alla debole e screditata rappresentanza popolare della Duma si andavano sostituendo i «consigli» (soviet) «degli operai e dei soldati». Fu questa la «Rivoluzione di Febbraio» (marzo secondo il calendario gregoriano), caratterizzata dalla dvoevlastie, il «duplice potere» della Duma e dei Soviet, che si riunivano in due differenti ali del Palazzo di Tauride a Pietrogrado.
La posizione dello zar Nicola si era fatta insostenibile: il fronte stava precipitando dinanzi all’urto delle armate tedesche, la sua popolarità nel paese era svanita dopo i suoi ripetuti ordini sanguinosamente repressivi nei confronti del suo stesso popolo; stava montando anche un sordo rancore nei confronti delle alte gerarchie della Chiesa ortodossa, ritenute responsabili dell’averlo costantemente appoggiato. Non gli restava che abdicare a nome suo personale e del figlio, lo zarevich Alessio gravemente ammalato. Ma il successore designato, il granduca Michele fratello di Nicola, rinunziò subito alla corona. Si provvide in tutta fretta all’insediamento di un governo provvisorio a capo del quale fu posto il principe Georghij Lvov: esso era composto da esponenti del Partito Costituzionale Democratico (i cosiddetti «Cadetti»), da socialisti popolari e da monarchici liberali. Era insomma un «governo di salvezza nazionale»: un governo di «difesa nazionale» e di «unione sacra» dal quale restavano fuori solo i bolscevichi i quali avevano fino dall’inizio del conflitto denunziato il fallimento della «Seconda Internazionale» e il tradimento di quei socialisti che si erano affiancati ai partiti «borghesi».
Da parte sua il Kaiser, il quale aveva bisogno assoluto che la Russia uscisse dal conflitto per poter liberare le sue divisioni impegnate sul fronte orientale e trasferirle su quello occidentale, non perdeva tempo: fece in modo che Lenin, ben provvisto di danaro, partisse dal suo esilio di Zurigo con un treno piombato che attraverso Germania, Svezia e Finlandia lo condusse il 16 aprile a Pietrogrado. L’annunzio che la guerra doveva continuare, emanato dal governo provvisorio proprio due giorni dopo, provocò un oceano di vive proteste e face crescere ulteriormente le fila del movimento bolscevico, mentre nel governo facevano ingresso i menscevichi e i socialrivoluzionari. Il 3 giugno si riuniva a Pietrogrado il primo congresso panrusso dei Soviet, durante il quale contro el tesi mensceviche e socialrivoluzionarie i bolscevichi pretesero a gran voce l’uscita da un conflitto ormai ritenuto insostenibile. Per tutta risposta, una quindicina di giorni più tardi il ministro della difesa Kerenskij annunziò una grande offensiva contro l’armata austrungarica in Galizia. Era una maldestra manovra diversiva: non osando affrontare ulteriormente i troppo forti tedeschi, ci s’illudeva di aver la meglio contro il più debole esercito asburgico. Fu n nuovo fallimento: dopo qualche successo iniziale non si riuscì a procedere, i soldati si rifiutarono di combattere e di obbedire agli ordini e l’offensiva fallì. A Pietrogrado cominciarono le rivolte dei soldati e degli operai, in parte spontanee ma subito egemonizzate dai bolscevichi; esse dilagarono anche in altri centri del paese e a nulla valse la reintroduzione della pena di morte, abolita all’atto della caduta dello zar. Fra il 3 e il 7 luglio il governo reagì organizzando una grande «retata» dei capi bolscevichi: ma Lenin riuscì a sottrarvisi e, dal suo rifugio in Finlandia, continuò a guidare il movimento bolscevico; il 24 dello stesso mese il primo ministro del governo provvisorio Lvov si dimetteva lasciando il posto a Kerenskij, che dette vita a un nuovo governo composto quasi del tutto da menscevichi e socialrivoluzionari.
A quel punto entrò in scena un buon soldato, il generale Lavr Kornilov, ben deciso non solo a continuare la guerra al fianco delle forze dell’Intesa anglo-franco-italiana, ma anche a marciare su Pieroburgo per liberarsi tanto dei bolscevichi quanto del governo semisocialista di Kerenskij, il quale reagì accusando il generale di star attuando un colpo di stato. D’altro canto, la scelta radicalmente controrivoluzionaria di Kornilov aveva avuto l’affetto di rafforzare il fronte bolscevico verso il quale si orientavano sempre più le simpatìe dei soldati e degli operai, mentre anche la sinistra socialrivoluzionaria aderiva al movimento di Lenin. Il quale, come già sappiamo in quanto da qui abbiamo cominciato al nostra narrazione, annunziava che la sollevazione militare contro il governo era ormai inevitabile: prendevano da quale momento a organizzarsi i comitati militari bolscevichi. Due settimane dopo, il 25 ottobre, gli insorti occupavano il Palazzo d’Inverno di Pietrogrado e arrestavano i membri del governo che vi si trovavano mentre Kerenskij faceva a tempo a fuggire in Francia. Il congresso dei Soviet, ormai egemonizzato dai bolscevichi, assumeva formalmente il potere, ma da esso si ritiravano menscevichi e socialrivoluzionari moderati. Il giorno successivo, il governo sovietico emanò i due primi fondamentali decreti: immediata e incondizionata uscita della Russia dal conflitto e abolizione della proprietà privata con relativa ridistribuzione tra i contadini delle terre confiscate; fu inoltre stabilita la giornata lavorativa di otto ore e si abolì di nuovo la pena di morte. A queste misure fece immediato seguito, il 27, il decreto sulla stampa che introduceva la censura sui giornali.
La rivoluzione bolscevica si andò allargando immediatamente a tutta la Russia3 novembre i rivoluzionari assunsero il controllo di Mosca. Ma nove giorni più tardi, nelle elezioni tenutesi il 12 per l’assemblea costituente, i socialrivoluzionari ottennero circa il 40% dei suffragi mentre ai bolscevichi andò appena il 24%. Il governo restava comunque nella mani di questi ultimi, che alla conferenza di pace con tedeschi e austrungarici apertasi il 19 a Brest-Litovsk (nell’attuale Bielorussia) furono rappresentati dal «commissario del Popolo» agli esteri (non più ministro) Lev Trotskij. Le trattative, culminate il 2 dicembre con l’armistizio, si protrassero fino al 3 marzo dell’anno successivo allorché nella medesima località venne firmato un vero e proprio trattato di pace. La nuova Russia rinunziava formalmente, siglandolo, a qualunque rivendicazione territoriale su Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Bielorussia, Ucraina, tutti avviati a divenir paesi indipendenti.
Dalla Russia all’URSS alla CSI. Il 5-6 gennaio dell’anno successivo si riunì l’assemblea costituente, a maggioranza menscevico-socialrivoluzionaria: ma i bolscevichi l’obbligarono immediatamente a sciogliersi. L’8 marzo successivo il partito operaio socialdemocratico russo, durante il suo settimo congresso, assunse ufficialmente le denominazione di Partito Comunista Russo. Fra 1918 e 1925 alcuni generali ex-zaristi avevano intanto organizzato un’«Armata Bianca» nel tentativo di restaurare l’antico regime; si era opposta loro l’«Armata Rossa» organizzata da Lev Troskij e da Michail Frunze. Ne era seguita una lunga guerra civile, accompagnata nel ’21 da scioperi e insurrezioni (come quella die marinai anarchici a Kronstadt). La socializzazione e la pianificazione centrale del «comunismo di guerra» era fallita costringendo nel ’21 Lenin alla svolta della «Nuova Politica Economica» (NEP) caratterizzata da varie forme di «capitalismo di stato» e di scelte di «economia mista». Ma il Partito Comunista aveva reagito proibendo nel marzo del ’21 qualunque opposizione interna ed eleggendo nell’aprile del ’22 il georgiano Jozip Vissarionovich Dzughasvili (Stalin) a suo segretario generale, col compito – da lui perfettamente eseguito – di epurare il partito dagli oppositori e di riorganizzarne i quadri. Il 22 dicembre seguente, col X congresso panrusso dei Soviet, le repubbliche russa, ucraina, bielorussa e transcaucasica (unione dei territori oggi distribuiti fra Georgia, Armenia e Azerbaijan) si unirono nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche; in seguito a ciò il Partito Comunista Russo si ridenominò nel 1925 Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), mentre alla neonata URSS si erano aggregate nel ’24 le repubbliche dell’Uzbekistan e del Turkmenistan e nel ’29 quella del Tajikistan. Quanto il 21 gennaio del 1924 Lenin, da tempo ammalato, aveva concluso la sua esistenza, la nuova compagine socialista sovranazionale era nata: e si sarebbe consolidata nel ’29 con l’avvìo della dittatura di Stalin e con i suoi «piani quinquennali». Si uscì dal tunnel solo nel 1938. Era stato, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, un ventennio durissimo: guerra civile, repressione, carcere, esili, deportazioni, esecuzioni, una dura campagna antireligiosa, una lunga crisi economica accompagnata addirittura da un tragico periodo di carestia con inaudite sofferenze della popolazione. Ma l’Unione Sovietica era passata da un paese prevalentemente agricolo devastato da una guerra perduta a una delle più grandi potenze industrializzate del mondo.
È arduo, oggi, dare un giudizio definitivo sulla rivoluzione sovietica e sulla sua parabola dall’abisso della sconfitta del ’17 alla tragedia degli anni più duri alla seconda guerra mondiale che le costò circa 20 milioni di morti al suo apogeo di grande potenza e al suo declino iniziato già con il XX congresso del PCUS sino al suo declino, al fallimento del «comunismo reale» e al frantumarsi dell’URSS del resto poi in una qualche misura ricostituitasi come Confederazione degli Sati Indipendenti (CSI). Si discute ancora se il comunismo sia fallito a causa della sua degenerazione totalitaria staliniana o nonostante la trasformazione che il totalitarismo staliniano le aveva imposto: dal momento che non si sfugge facilmente dall’impressione che Stalin – con tutti gli errori e gli orrori della sua tirannide – abbia conferito un senso storico alla rivoluzione sovietica esattamente come, «mutatis mutandis», la tirannide di Napoleone ne aveva conferito uno alla rivoluzione francese. D’altronde, va tenuto presente che i giudizi storici non sono mai, per loro natura, definitivi: la storia in sé non muta, mutano però i giudizi che noi ne diamo anche a causa di continue, nuove acquisizioni critiche e documentarie. La storia dev’essere ripensata continuamente: e il ripensamento è revisione o non è nulla.
Quanto al suo uso, è evidente che il volto dell’immensa compagine che fino al 1914 era stata soggetta all’impero zarista uscì, dalla rivoluzione e dall’esperienza sovietica, profondamente mutato. L’uso politico della storia da parte di Vladimir Putin, oggi, è quello della costruzione di un percorso coerente e trionfale che da Pietro il Grande e da Caterina II giunge, attraverso alterne vicende, contraddizioni, crisi e ristagni, alla vittoria del ’45 e quindi all’attuale ridefinizione della Russia come potenza leader della CSI e del mondo. Ciò significano le manifestazioni pubbliche nelle quali le effigi di Pietro il Grande e talora addirittura di Nicola II si accompagnano a quelle di Stalin, alle icone della Vergine Maria, alle bandiere imperiali e a quelle rosse; ciò significa la compresenza, sui fastigi delle torri del Cremlino, delle stelle rosse e delle aquile bicipiti dei Romanov. Non è folklore e tantomeno sincretismo. È semmai, in un certo senso, l’affermazione della volontà di giungere alla consapevolezza di qualcosa di simile a quel che negli Stati Uniti d’America è il «Manifesto Destino» della Nazione Americana. È una proposta comunitaria e identitaria in fieri, che non può essere acriticamente accettata ma alla quale tuttavia si deve guardare, nel contesto della generale crisi dei valori che caratterizza questa fase della globalizzazione, con interesse, fiducia e rispetto.