Cultura & Società
Rimedi vecchi e nuovi per combattere l’influenza
di Carlo Lapucci
Come viene il tempo dei cipolloni, dei geloni, delle ciliegie, delle zanzare, viene anche quello dell’influenza e ormai ci siamo: ognuno, forte delle proprie convinzioni e dell’annosa esperienza, nonché con qualche sua idea stravagante, cerca di combattere il morbo: vaccini, diete, alimenti speciali, ricostituenti amuleti. Ogni tanto spunta fuori una moda, come fu quella preventiva dell’olio di fegato di merluzzo, panacea di tutti i mali, che veniva fatto ingurgitare a cucchiaiate giornaliere a chi ebbe la malaugurata idea di fare il ragazzo nel secondo dopoguerra.
Molto prima ancora ci si raccomandava ai santini e agli abitini, agli scapolari, ma con l’influenza non ce l’ha mai potuta nessuno. Nel nostro tempo, irrobustitasi la popolazione, scoperti gli antibiotici, migliorati l’igiene e i sistemi di riscaldamento, l’influenza non è più lo spauracchio d’una volta, male di cui si poteva facilmente morire. Si chiamava con altri nomi, aveva forse anche altre forme, ma era la malattia di sempre che arriva quando il freddo ha indebolito le difese dell’organismo e colpisce a cominciare dai più deboli, all’apparato respiratorio o digerente. Un tempo si prendeva come un malanno e ci si rimetteva a Dio, sempre tenendo conto del proverbio: Aiutati che Dio t’aiuta. Certamente l’inquinamento ambientale, alimentare ha reso più vulnerabili gli organismi ed è difficile dire quale incidenza avesse nei secoli passati questa epidemia.
Il primo significato del termine influenza è il fluire, lo scorrere di un liquido, d’un fluido. Il secondo è una sua metafora: il discendere dalle stelle d’una forza, d’un influsso che condiziona, altera, inclina le cose materiali e spirituali, del mondo e dell’uomo, compreso il destino. Da questo significato prese nome il malanno e ci si dovrebbe anche credere se nomina sunt consequentia rerum (i nomi derivano dalle cose). Certo è molto più comodo dare alle stelle la colpa dei propri guai, che autoflagellarsi incolpandosi della propria malattia per aver versato un detersivo per le scale, gettato bombolette scariche dalla finestra, o gettato nel cesso qualche ettolitro di sciroppo d’aghi di pino per la tosse, fatto con anni e anni di lavoro, ed ereditato con la cantina dello zio Annibale buonanima.
Fu Don Ferrante il primo a cercare una via per così dire più razionale e scientifica alla spiegazione del fenomeno. Anche allora ci si contentava di sapere i motivi; il malanno, era pacifico come è oggi, che ognuno se lo doveva tenere. Manzoni, delineando il prototipo dell’intellettuale italiano politicamente corretto, ci dice che questo gentiluomo si era fatto banditore della sua teoria per la quale, negando il contagio, sosteneva che la famosa peste secentesca era causata dalla congiunzione di Saturno con Giove e dalla pestifera influenza che ne derivava. Con ragionamenti altamente filosofici trovò il modo di mandare in bestia parecchi «non prese nessuna precauzione contro la peste; gli si attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe del Metastasio, prendendosela con le stelle». E questo dimostra anche come si può morire felici per le proprie idee.
Non tutti però hanno la fermezza degli uomini di grande erudizione. Le persone di bassa o di media cultura si sono sempre pedestremente ingegnate, coi mezzi che offrivano i tempi, a trovare un possibile rimedio. Solo un farmaco ha attraversato i millenni ed è ancora sui banchi delle farmacie: l’aspirina. L’acido salicilico, contenuto nel salice, è la base di questo comune farmaco: si sa che gli Assiri e i Babilonesi, allorché si manifestavano certi disturbi, ricorrevano a questo che forse è il più antico medicamento: masticavano foglie o rametti di salice, che fungeva da aspirina, abbassando sensibilmente le febbre. Tuttavia la funzione antipiretica è l’unico sollievo per queste affezioni influenzali che abbassano le difese immunitarie e aprono la strada ad altri malanni. Praticamente, tolta la prevenzione di vaccini, il virus che muta continuamente non ha nemici.
Ippocrate (460-377 a. C.), padre della medicina, si era accorto che il medicamento stava soprattutto nella corteccia del salice e ne raccomandava l’estratto per la febbre e i dolori reumatici; gl’indiani d’America erano dello stesso parere. Nel XVIII s’impiegò l’acido salicilico nella cura della malaria mentre se ne diffondeva l’uso che però, insieme ai numerosi effetti benefici, aveva effetti collaterali devastanti con emorragie intestinali e reazioni allergiche. Fu Bayer nel 1899 che, depositando il nome aspirina, trovò il modo di attenuare gli effetti collaterali.
Questa è la parte più convincente della terapia antica, conservatasi fino ai nostri giorni. Il resto consisteva nel caso migliore nel rafforzare l’organismo con preparati e alimenti nutrienti, o ritenuti tali. Tralasciamo gl’intrugli che, anche loro, hanno attraversato i millenni e sono giunti fino a noi più o meno travestiti da medicine. L’uovo ad esempio era a buon diritto consigliato ai malati per irrobustirsi, ma in caso di influenze intestinali erano dolori. Spesso veniva servito col brodo, altro alimento che si usava dare ai malati come un vero toccasana. A questo proposito c’è una leggenda popolare curiosa.
«Essendo Eva caduta malata stava piangendo nel suo giaciglio e di giorno in giorno deperiva. Il Signore la vide dall’alto del cielo ed ebbe paura che con la progenitrice si estinguesse il genere umano, per cui mandò sulle terra l’Arcangelo Raffaele a portare ad Adamo una cassetta dove erano raccolte tutte le medicine del mondo: bastava che un malato l’aprisse perché ne venisse fuori il rimedio che lo faceva guarire. L’Arcangelo si raccomandò che non la rovesciassero, perché altrimenti le medicine si sarebbero confuse. Eva aprì la cassetta e subito ne volò fuori un piccione al quale la donna tirò il collo e, facendone un brodo, tornò in poche ore perfettamente sana. Così la cassetta provvide alla salute. Ma un giorno Caino e Abele, ancora bambini, trovarono la cassetta e ci cominciarono a giocare. Tanto fecero che si rovesciò e le medicine si sparsero sulle erbe che, da quel giorno, ebbero essenze salutari, ma non ci si ricorda alcuna che faccia bene: solo il brodo di piccione».
La parte finale spiega anche un’altra convinzione della medicina popolare: che le erbe contengano tutti i medicamenti necessari all’uomo per le sue malattie. Questo principio non era separato dalla visione magica né da quella religiosa: la virtù era infusa nella pianta. Funzionava così anche una medicina spicciola di tutti i giorni, ricavata dall’orto e dal bosco, e c’era la vera sapienza delle erbe e una parte non piccola che debordava nella magia e nella stregoneria. Le erbe infatti hanno una zona oscura della loro natura: affondano nel buio della terra le loro radici: per metà appartengono al mondo della luce, per metà a quello delle tenebre. Le stesse erbe sono ambigue nella loro natura: portano salute e morte, e solo l’opera del sapiente può separare ritualmente le due cose.
Anche Plinio (Naturalis Historia, XXIV, I) è di questo avviso: «Nemmeno le foreste e le zone ove la natura si presenta nel suo aspetto più selvaggio sono affatto prive di piante officinali: non c’è luogo ove quella santa madre di tutte le cose non le metta a disposizione dell’uomo, al punto che il deserto stesso diviene fonte di medicinali. La natura avrebbe desiderato che fossero i soli medicamenti: a disposizione di tutti, facili da trovarsi e ricavabili senza alcuna spesa dalle sostanze di cui viviamo. Più tardi eccoci a decantare misture ed intrugli complicatissimi; si fa venire il medicamenti dal Mar Rosso, mentre i farmaci più efficaci se li masticano ogni giorno a cena i poveracci. Basterebbe andare a raccogliere erbe ed arboscelli nell’orto, perché la medicina divenisse la più misera delle professioni…».
Nell’Antico Testamento si trova la celebre visione di Ezechiele (Ezechiele XLVII) che afferma lo stesso principio: Vidi aquam egrediente de templo..., un fiume esce dal lato destro del luogo sacro, portando acqua di salvezza nel mondo. Questa visione di risanamento e salute si collega con il mondo vegetale:
«Era un fiume che non potevo attraversare perché le acque erano cresciute, erano acque navigabili, un fiume da non potersi passare a guado… Poi voltandomi vidi che sulla sponda del fiume vi era una grandissima quantità di alberi, da una parte e dall’altra… Queste acque vanno a riuscire nella regione orientale, scendono nella pianura ed entrano nel mare, sboccate in mare ne risanano le acque. Ed ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il fiume vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo perché dove giungono quelle acque esse risanano e tutto rivivrà…
E lungo il fiume, su una riva e sull’altra, crescerà ogni sorta di alberi fruttiferi, le cui fronde non appassiranno, e non cesseranno i loro frutti, che ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal Santuario. I loro frutti serviranno da cibo e le foglie da medicine».
Tornando alla nostra influenza da curare con gli almanacchi bisogna dire che questa malattia non era chiara prima della scoperta dei virus e anche in seguito veniva confusa con altre affezioni, indicata in modi diversi a cominciare da quelle febbri autunnali dei latini le cui tracce sono rimaste forse nel proverbio: Febbre autunnale o lunga o mortale. Il termine entrò nell’uso comune con la tristemente famosa epidemia di spagnola del 1919. Anche i repertori della Scuola salernitana poco o nulla dicono dell’influenza: le manifestazioni di questo tipo venivano imputate sì agl’influssi celesti, ma soprattutto all’aria, alle condizioni atmosferiche, alle esalazioni, ai venti. Frequenti sono le raccomandazioni a vivere in ambienti sani, ventilati, luminosi e di specifico è tutto lì.
Nello studio sulla medicina popolare del Pitrè, antropologo e medico della fine dell’Ottocento, non esiste il termine influenza con questo significato. Così gli altri repertori del genere pongono l’influenza sotto «vari tipi di febbre» e la curano come tale. Di conseguenza si torna al salice e ai palliativi perché più o meno sono tutti antipiretici. Come primo intervento che forse ritenevano specifico, si davano infusi di fiori di rosmarino (Rosmarinus officinalis), di gemme di faggio (Fagus selvatica), di narciso silvestre (Narcissus silvestris). Ai bambini la mela grattata ritenuta capace di combattere la febbre. Si dava poi, come più potente rimedio, il decotto di foglie di tarassaco (Taraxacum vulgare), detto dente di leone, dente di cane, oppure, con più gentile eufemismo, pisciacane. Si tratta di una pianticella comunissima che si trova dovunque nei luoghi incolti, lungo le strade e sui vecchi muri ed ha forte azione antifebbrile.
Ora studiate bene la faccenda, anche consultando i vostri calepini, preparate colini e pignatte, alambicchi e vedete un poco se l’idea d’andare per la campagna un po’ balordi, con vento e il nevischio in faccia, a cercare la modica quantità di Taraxacum vulgare, vi fa raggiungere la calma rassegnazione nei nostri antenati, che è il miglior presupposto per guarire. Poi, sempre con calma, prendete la rubrica telefonica, andate alla lettera D e chiamate il dottore.