Italia
Rifugiati, ultime ore
Domani, 28 febbraio, dopo una proroga di 60 giorni, per il governo si chiude l’emergenza umanitaria del 2011 che aveva portato in Italia, in fuga dalla Libia e dal Nord Africa, oltre 60mila persone. Ai 13mila rifugiati ancora accolti nei centri – gestiti da associazioni, cooperative, centri sociali o in alberghi – verrà data una buonuscita di 500 euro e un documento che consente la libera circolazione. Dove andranno? Finiranno in strada o nei palazzi fatiscenti e abbandonati? Per loro è stata spesa una media di circa 25mila euro a persona. Molti di questi soldi, anticipati dalle organizzazioni che li hanno accolti, devono essere ancora rimborsati. Anche la rete delle Caritas diocesane ne ha accolti 3mila. Tra i 600 e gli 800 sono ancora nelle loro strutture. Cosa succederà dopo il 28 febbraio? Lo abbiamo chiesto ad Oliviero Forti, responsabile dell’ufficio immigrazione di Caritas italiana.
I rifugiati dell’emergenza Nord Africa dovrebbero andar via domani con 500 euro e nessuna prospettiva per il futuro. Quali reazioni, nei vostri centri?
«Abbiamo ancora centinaia di persone che non vogliono lasciare l’accoglienza, nonostante i 500 euro. I motivi sono i più vari: prima di tutto che 500 euro non possono costituire l’occasione per sistemarsi sul territorio. Hanno paura, non sanno dove andare a dormire, non sanno a chi rivolgersi».
Quali sono le maggiori difficoltà che incontrate?
«Abbiamo decine e decine di casi vulnerabili (minori non accompagnati, vittime di tortura, famiglie numerose, donne con minori, persone con disagio psichico), che secondo la circolare ministeriale dovrebbero rimanere in accoglienza fino a che non verranno inseriti nello Sprar (il Sistema di accoglienza per i rifugiati). Ma nello Sprar non ci sono posti, ci sono già centinaia di casi in lista d’attesa. Attendiamo delucidazioni dal ministero dell’Interno, perché al momento le persone vulnerabili rimarranno a nostro carico, senza la presa in carico delle istituzioni. Queste persone necessitano di un accompagnamento costoso e delicato. Non faremo mancare il nostro supporto ma vorremmo che il ministero si pronunciasse sul loro futuro. Si pensa forse che le persone spariranno nel nulla?».
Quindi continuerete ad accoglierli a vostre spese?
«Continueremo ad accoglierli ma i costi sono di centinaia di migliaia di euro al mese. Ad oggi abbiamo anticipato milioni di euro e stiamo ancora aspettando che ci vengano rimborsati. Continuare in questo modo diventa un po’ complicato».
Dai 3mila dei primi mesi, oggi nei vostri centri ci sono 600/800 persone. Gli altri?
«Gli altri hanno trovato la loro strada. Alcuni sono andati via con l’incentivo, molti sono andati all’estero (abbiamo pagato noi il biglietto). Ci aspettiamo però un flusso di ritorno di questi ultimi rifugiati nei centri d’ascolto, anche perché 500 euro è una cifra ridicola. Poi si è creato un problema: alcune regioni, comuni e prefetture, di propria iniziativa, avevano già provveduto a dare delle buonuscite, con importi molto variabili, dai 5/600 euro – come a Milano – ai 1.000 euro. I rifugiati si confrontano tra loro. Alcuni pretendono cifre più alte per andarsene».
Avete avviato percorsi d’integrazione?
«Sì e stanno andando bene. Siamo riusciti a inserirne alcuni, con contratti a tempo indeterminato. Stiamo iniziando un nuovo progetto che s’intitola ‘Rifugiato a casa mia’, per dare la possibilità ai rifugiati di trascorrere sei mesi in accoglienza presso alcune famiglie sparse per l’Italia e aprire canali di accoglienza diffusa che non siano necessariamente istituzionali. Vogliamo proporre questa iniziativa, già sperimentata a Torino e a costi molto contenuti, come sistema Caritas. Cominceremo con una quarantina di rifugiati, le famiglie ne potranno ospitare uno o due. Hanno aderito una decina di Caritas diocesane. Il progetto partirà a marzo con la formazione delle Caritas, l’accoglienza inizierà a maggio-giugno. Ci saranno anche percorsi d’inclusione per aiutarli a capire come funziona la società italiana. Perché finora questi rifugiati hanno conosciuto solo polizia, questure, cooperative, strutture di accoglienza. Non hanno mai avuto contatti diretti con l’Italia vera».
Forse i vostri ospiti sono tra i più «fortunati». E quelli che stanno negli alberghi?
«Quella è la situazione più grave perché non sono stati monitorati (o forse non ci sono stati riferiti i dati), ma sono la stragrande maggioranza. Noi non li accogliamo direttamente ma li seguiamo. Questo flusso potrebbe confluire verso la Caritas o i servizi sociali. Bisognerà capire come gestirli».
Molti finiranno in strada o in luoghi invivibili?
«È probabile. Come dovremo aspettarci un gran numero di persone che andranno a lavorare nelle campagne del Sud. Anche su questo ci stiamo preparando, creando una rete di Caritas del Meridione che affronti lo sfruttamento lavorativo e cerchi, nei limiti del possibile, di contrastare il fenomeno e supportare queste persone».
Per l’accoglienza è stato speso un miliardo e 300mila euro. Potevano essere impiegati meglio? Quale appello rivolgete oggi alle istituzioni?
«Sì è una cifra abnorme, che poteva essere impiegata meglio. Chiediamo di poter concertare insieme delle strategie di uscita, nonostante l’estremo ritardo. E massima collaborazione tra istituzioni e terzo settore, perché ognuno deve fare la propria parte e nella maggiore chiarezza possibile. Abbiamo bisogno che determinati input che provengono dalle istituzioni centrali, in particolar modo dal Viminale, vengano recepiti e applicati in maniera uniforme sul territorio».