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Riforma Onu, non è questione di posti

di Riccardo MoroUn dibattito non troppo rumoroso è affiorato sulle pagine dei quotidiani italiani durante l’estate intorno alla riforma del Consiglio di Sicurezza (CdS) delle Nazioni Unite. Il CdS è l’organo più rilevante dell’Onu perché ad esso lo Statuto conferisce la competenza della sicurezza e del mantenimento della pace e, dunque, anche la gestione di quel “monopolio della forza” che in un consesso democratico appartiene alla sovranità posseduta dal popolo e da questo delegata ai propri rappresentanti legalmente eletti. Già, eletti. Come è noto, la composizione del CdS è asimmetrica: cinque dei suoi quindici membri sono permanenti (Usa, Cina, Francia, Regno Unito e Russia) e possono esercitare il diritto di veto, dieci sono eletti a rotazione per due anni e non possono essere immediatamente rinnovati.

A sessant’anni dalla nascita dell’Onu l’attuale composizione appare anacronistica. Francia e Regno Unito non sono più potenze coloniali e la seconda guerra mondiale è lontana. Ma non c’è accordo sulle modalità di riforma o allargamento. Da diversi anni si sono confrontate due spinte. Da un lato quella per un allargamento dei membri permanenti a Germania e Giappone, con il favore degli Usa e le ulteriori candidature emergenti di Brasile, India e Nigeria.

Dall’altro la proposta italiana che non toccava la composizione dei membri permanenti, ma allargava a venti il numero di quelli a rotazione dando ad essi un maggiore ruolo e la rieleggibilità immediata. La proposta italiana si fondava sulla necessità di rendere il Consiglio più partecipato, più equilibrato e trasparente, dando una maggiore rappresentanza regionale, e si univa alla prospettiva di un seggio permanente per l’Unione europea, al posto evidentemente di Francia e Gran Bretagna.

Le due linee si sono scontrate piuttosto duramente negli anni ’90 con un risultato finale non sfavorevole all’Italia, grazie all’impegno dell’allora ambasciatore italiano presso le Nazioni Unite Francesco Paolo Fulci. Riunendo la maggior parte dei Paesi piccoli, non allineati e slegati dall’influenza degli Stati Uniti e dei grandi, Fulci creò il cosiddetto Coffe Club (dal nome dei primi governi ombra inglesi che si riunivano “fingendo” di bere il caffè), che con il proprio intervento fece passare in Assemblea generale la regola che le modifiche alla composizione del Consiglio di Sicurezza avrebbero avuto valore solo con il voto dei due terzi dei Paesi membri. In precedenza valeva il criterio dei due terzi dei votanti che permetteva di ottenere facilmente maggioranze con adeguati giochi di assenze: un Paese indeciso o in difficoltà usciva dall’aula favorendo la votazione, ma nascondendosi dietro la propria assenza.

Con la nuova regola di maggioranza il semplice allargamento dei membri permanenti è stato bloccato e il segretario generale Kofi Annan ha deciso di portare all’Assemblea conclusiva del suo mandato, quella del 2005, una proposta di riforma che possa contare su adeguato consenso. A questo fine ha nominato un gruppo di sedici “saggi” che dal novembre scorso hanno lavorato sino a trovare una prima importante intesa.

SONO PROPRIO I TERMINI DI QUELL’INTESA, anticipati a fine luglio dall'”Unità”, che hanno avviato il dibattito in Italia. I “saggi” propongono tre livelli all’interno del Consiglio di Sicurezza: quello dei permanenti, che non verrebbe mutato; un livello intermedio di sette Paesi eletti per quattro o cinque anni e immediatamente rieleggibili; quello infine – simile all’attuale – di dodici Paesi a rotazione eletti per due anni e non immediatamente rieleggibili. La novità più delicata è quella del livello intermedio per il quale si formulano già i nomi: Germania, Giappone, Brasile, India e Sudafrica. Fra le prime reazioni lo strepito della Nigeria che si vede superare dal Sudafrica e l’elegante candidatura australiana per la vicina Indonesia, 215 milioni di abitanti in prevalenza musulmani. In questo quadro è sottorappresentata l’area araba mediorientale, ed è naturale pensare ad una candidatura dell’Egitto.

Come si vede l’area intermedia, quella che conta perché è di fatto un allargamento di sostanza anche se non di forma dei membri permanenti, diventa ambita. E sovraffollata: si devono trovare equilibri. In Africa c’è la competizione tra Nigeria e Sudafrica, che peraltro scontenta l’area francofona. In America Latina non è scontato che l’Argentina si faccia rappresentare dal Brasile. Analogamente non è scontato che il Pakistan accetti una promozione dell’India, né che in Asia si trovi facilmente un equilibrio a rappresentare il Sud-Est. E, ciò che ci tocca da vicino, con Francia, Regno Unito e Germania dentro, non c’è nessuno spazio per l’Italia.

IL GOVERNO ITALIANO, che da mesi descrive come radicalmente rafforzati l’immagine e il ruolo internazionale dell’Italia, appare sorpreso da questa situazione. Il ministro Frattini ha reagito due settimane dopo la notizia dell’intesa fra i “saggi” con un’intervista al “Corriere della Sera” nella quale ha scelto la linea di una competizione dura con la Germania, ma non attraverso la creazione di una minoranza di blocco, come fece Fulci, bensì appellandosi all’alleanza con gli Stati Uniti. Solo a fine agosto il presidente del Consiglio ha fatto trapelare di avere già scritto agli Stati Uniti e agli altri membri permanenti perché non venisse dimenticato l’impegno dell’Italia verso il multilateralismo e, soprattutto, il suo impegno a partecipare alle missioni di pace e a sostenere finanziariamente l’Onu (l’Italia è effettivamente da molto tempo il quinto contributore delle Nazioni Unite). A Bush, Berlusconi ha anche ricordato, secondo quanto diffuso dalle agenzie, la sua fedeltà di alleato nella vicenda irachena.Sui giornali italiani i commenti sono stati numerosi e piuttosto critici. In modi diversi ex-ambasciatori, come Boris Banchieri, Sergio Romano e lo stesso Fulci, insieme a personalità che da tempo seguono le vita delle Nazioni Unite, come Giandomenico Picco, Gian Giacomo Migone, Lamberto Dini ed Emma Bonino hanno fatto notare che non sembra destinata a sortire grande risultato una “diplomazia delle lettere” che fa appello ai potenti perché si ricordino e premino la nostra fedeltà. In effetti la sfida è complicata e l’Italia, che ha una importante tradizione di Paese sostenitore del multilateralismo, in Europa e all’Onu, vorrebbe riuscire a rimanere nei giochi senza perdere la sua immagine.

MA LA QUESTIONE È UN’ALTRA. Ciò che conta non è il ruolo dell’Italia, ma quello delle Nazioni Unite nel diffondere la pace e la democrazia. Per l’Italia l’obbiettivo è concorrere a quel ruolo, non è trovare un posto a sedere. In questa prospettiva allora bisogna senz’altro rafforzare la tendenza a promuovere la nascita di attori in grado di dare rappresentanza regionale. Insistere sul seggio all’Unione europea non è tempo perso, purché si sappia che non è per domani. Francia e Gran Bretagna sono le prime avversarie di quella proposta. Ma inimicarsi frontalmente la Germania, tradizionalmente favorevole al seggio Ue, significherebbe eliminare la possibilità anche per il futuro.

In Africa la crescita, pur tra mille contraddizioni, dell’Unione africana, potrebbe maturare uno sbocco analogo. In altri continenti una rappresentanza regionale può essere esercitata da singole nazioni in un quadro di dialogo aperto e continuo con i vicini. Questo sembra essere lo stile del Brasile di Lula, che, ad esempio, propone al Fmi di discutere le questioni finanziarie in seduta comune con l’Argentina, perché si tratta di problemi e interessi sovranazionali, guadagnandosi una autorevolezza regionale e una fiducia che gli permette di giocare da main player anche nelle sedi internazionali come il Wto. Ruolo che sta assumendo lentamente anche l’India nell’area asiatica, peraltro senza esaurirne la rappresentanza.

Non sono soluzioni definitive, ma equilibri che possono essere costruiti e rinnovati con equilibrio. Inoltre occorre non dimenticare che il Consiglio di Sicurezza non è tutto. Un ambito sempre più importante, che oggi gode di rappresentanza più equa, è quello del Consiglio economico sociale: l’Ecosoc. In tanti sogniamo un Consiglio unico che si occupi di pace, sicurezza e sviluppo sociale ed economico in modo congiunto. La riforma potrebbe muoversi in questa direzione. Ancora una volta non è questione di posti.

È tardi per concorrere a tutto ciò? Sì e no. Da un certo punto vista il quadro emerso nel gruppo dei “saggi” sembra costituire un punto di non ritorno. Ha richiesto tempo e tiene conto di entrambe le tesi degli anni ’90, recependo forse maggiormente quella italiana per un non allargamento dei membri permanenti. È difficile, come ha ricordato Picco, che il consenso costruito dai saggi venga azzerato. D’altra parte, come dice Emma Bonino, è vero che le riforme Onu richiedono tempi molto lunghi e il quadro che forse emergerà dall’Assemblea dell’anno prossimo potrebbe essere solo un primo passo nella direzione di un assestamento più definitivo anche dell’intera istituzione e non solo del Consiglio di Sicurezza.

In ogni caso ciò che conta è non rimanere inerti, ma assumere iniziativa politica, con la capacità di non apparire luogotenenti di potenze più grandi (secondo molti per questa ragione i “saggi” preferiscono la Germania a noi nella formazione di un CdS equilibrato) ma di dialogare in modo attivo con tutti e “provocare” discussione intorno ai temi che contano, dalle guerre dimenticate alle regole della finanza, dal debito al commercio internazionale, per ottenere di conseguenza la stima e la capacità di concorrere a costruire soluzioni. E per dialogare con tutti, come dice Fulci, bisogna “esserci”, e parlare a tutti, ricordandosi che in Assemblea generale il voto di Saint Kitts and Nevis vale quanto il nostro e quello della Cina. E che ci vogliono i voti perché passino le riforme.

NON È UN MODO VOLGARE di intendere la politica. È la lezione di grandi statisti, come De Gasperi, che hanno servito grandi ideali comuni, testardamente, attraverso soluzioni concretamente possibili. Sapendo che perseguire con sapienza un interesse universale tutela anche quello nazionale, come è avvenuto per l’Italia del dopoguerra.