Opinioni & Commenti
Riforma della giutizia: il frutto di quattro anni di scontri
Il ragionamento è debole e, in ogni caso, c’è qualcosa che non va se dopo sette passaggi parlamentari, un rinvio alle Camere e un’approvazione a colpi di fiducia il presidente del Consiglio e leader della maggioranza che l’ha fortemente voluta, se ne dichiara non soddisfatto, pur aggiungendo che “è un primo passo verso una giustizia veramente giusta e processi più brevi”. Da un’altra sua frase si arguisce che la legge va nella direzione di una giustizia veramente giusta, perché attenua la contiguità fra giudici e “p.m. che la sinistra ha saputo impiantare nell’ambito della giustizia. E che ancora oggi, sono troppo vicini ai partiti dell’attuale opposizione”.
Ora se vi è una cosa certa è che, invece di accelerare i tempi della giustizia, la riforma li allungherà ulteriormente, ed è significativo che nessuno abbia saputo nemmeno indicare quali fra le previste innovazioni consenta di raggiungere questo risultato. Certamente non la norma sulla progressione in carriera a mezzo di esami, che spingerà i magistrati a dedicare tempo ed energie alla confezione di elaborate sentenze e, comunque sia, alla preparazione dei concorsi esattamente come accadeva una quarantina di anni fa quando la carriera era imperniata su titoli e esami. Ancor meno la norma cosiddetta anti-Caselli, oltre tutto mal formulata, perché, mentre mantiene ferma la data del pensionamento al 70° anno di età per il calcolo degli almeno quattro anni di residua permanenza in servizio necessari per conseguire un ufficio direttivo, lascia in piedi la facoltà dei magistrati di restare in servizio fino ai 75, sicché i futuri titolari di uffici direttivi vi permarranno per 9-10 anni in contraddizione con l’esigenza sempre concordemente proclamata di ridurne la durata (si parlava di quattro anni, eventualmente rinnovabili per non più di una volta e in altra sede).