Cultura & Società
Riflessioni per il giorno dei morti
Era usanza antica fissare sul marmo, insieme ai tratti del defunto, anche un suo breve cenno biografico, le sue qualifiche, la sua attività e i titoli, se li aveva. Più nulla. Vero è che nel passato prossimo (Ottocento e parte del Novecento) si era esagerato non poco, riempiendo i marmi di lunghe pappardelle, che spesso facevano sorridere al punto che si dice ancora: Bugiardo come un epitaffio. D’altra parte non era il caso di ricordare chiaro e tondo, e a caratteri indelebili, come il poveretto che giaceva là sotto n’avesse fatte più di Carlo in Francia, e allora si diceva il meglio possibile e qualcuno esagerava, finendo nell’incredibile. Fenomeno che fece domandare a un turco in visita a un cimitero cristiano, dove venivano sepolti da noi i cattivi.
Questo può apparire meglio attraverso altri mutamenti di usi funebri, alterati o scomparsi, ed emerge subito un elemento: l’uomo oggi tende a circoscrivere la propria vita al tempo della sua realtà biologica. Anche ritenere che, in sostanza, quello che uno ha fatto nella vita, chi è stato, cosa ha lasciato, non interessa più a nessuno, significa che l’io non si pensa più parte coerente con un tutto: con buona pace del Foscolo, né le urne dei forti, né quelle dei deboli, creano più una corrispondenza d’amorosi sensi, né sono ammonimenti, dal momento che tutto illumina la ragione e per quanto riguarda l’esperienza ognuno deve fare la propria. Era già tutto scritto nella visione illuminista della vita: oggi se ne traggono solo le conseguenze.
Cicerone a Siracusa riuscì a individuare la tomba di Archimede trovando sulla lapide incisi un cilindro e una sfera, il cui rapporto fu la grande scoperta dello scienziato, ma quanti messaggi sono giunti fino a noi anche da umili sepolcri? L’epitaffio un tempo raccoglieva la summa di un’esperienza, un ammonimento, il frutto estremo di un’esistenza, tanto che ne ha fatto tesoro la letteratura. Molte composizioni dell’Antologia Palatina, la grande raccolta di poesia bizantina, sono forme poetizzate di epitaffi. Lo stesso procedimento usò Edgar Lee Masters nella, un tempo notissima, Spoon River Anthology, e anche i discorsi di coloro che Dante incontra nella Divina Commedia, non sono che grandi autoepitaffi.
Nel giro di pochi decenni le tombe dalla terra si sono sollevate in edifici, loculi somiglianti agli alveari di casermoni di megalopoli, tutti uguali, come vuole la morte, tutti precari destinati ad ospitare le salme qualche decennio, poi la polvere.
Anche i fiori scompaiono con la formula umanitaria: Non fiori, ma opere di bene. L’intenzione è lodevole, ma anche qui si cancella l’ultima traccia dell’antico sacrificio in onore e memoria del trapassato: un tributo di bellezza, una rinuncia a un bene che si deponeva ai piedi della persona cara, dell’amico, di chi doveva essere ricordato.
Proprio davanti alle tombe ormai non si trovano quasi più fiori freschi. Le imitazioni in plastica e altri materiali hanno preso il loro posto, col vantaggio di non mostrare più il penoso spettacolo di steli e foglie appassite, mantenendo a tempo indeterminato un aspetto meno trasandato, ma di una fissità spettrale, alla quale non si fa più caso.
Del resto che faccia farebbe una persona che si vedesse fare in omaggio un bellissimo mazzo di fiori finti? Avete voglia a dire che durano di più: non la rimediate, e giustamente. I morti non parlano e se li tengono, ma è un nostro autoinganno.
Un altro elemento contraddittorio è il lusso delle tombe che sempre più si fanno in terra: qui compaiono marmi preziosi, talvolta statue che da tempo erano scomparse, ornamenti in bronzo, vasi, riquadrature o strutture dello stesso metallo: manufatti spesso costosissimi, che fanno pensare a sopravvivenze di uno spirito apparentemente tramontato. A rifletterci bene si sospetta che sia uno spirito foscoliano esteso alla massa, anche perché l’immanentismo vi trionfa ancora di più.
Infatti un altro elemento è venuto a mutare: la fotografia. Fino a poco tempo fa le immagini che si trovavano sulle lapidi erano di una tremenda serietà: pareva che il defunto fosse il primo a condolersi per la sua scomparsa. Gente per lo più vecchia accigliata, triste, senza una minima traccia di sorriso: e si capisce bene. Si pensava a loro come in un mondo lontano, forse nelle sofferenze d’un purgatorio, forse davanti al trono di Dio e si meditava.
Oggi suona altra musica: la foto sulla tomba, soprattutto in quella di media sfarzosità, tende a ritrarre il caro estinto nel momento della sua massima vitalità, anche se è morto centenario, per cui si vede gente nel fiore degli anni che fa lo sci nautico, o quello sulla neve, in calzoni corti in visita ai Caraibi, in moto, su rombanti auto scoperte con le chiome al vento, tanto che lì per lì si sospetta che il decesso sia avvenuto il quei momenti, nel corso di un malaugurato incidente.
Al di là degli aspetti esasperati di rappresentazioni nevrotiche della nostra fine, quali le varie ossessioni vissute in diversi periodi storici, atte a spaventare più che a far meditare, nei cimiteri si tocca con mano la contraddizione di una vita alla quale la sola scienza, nella sua veste peggiore di scientismo, presume di dare il senso e il valore e non riesce ad aver ragione dei problemi fondamentali dell’uomo, per cui infantilmente cerca di nascondere quello che ricorda la sua scommessa e la sua sconfitta.
Le lapidi più famose
«Il giorno dei morti»
1° novembre, l’enigma della santità (di FRANCO CARDINI)
Se il fatto più importante della vita è la morte (di RODOLFO DONI)