Opinioni & Commenti

Restare in Iraq ma in un ottica diversa

di Romanello CantiniE’ inutile negarlo con belle parole e sofisticate analisi. Quando all’improvviso ci si trova di fronte ad una strage come quella che è costata la vita a tanti italiani a Nassirya la prima reazione istintiva di molti è: «Togliamo le tende e lasciamo cuocere gli iracheni nel loro brodo». Oppure l’altra: «Che se la vedano coloro che questa guerra l’hanno voluta».

Non ci sentiamo di liquidare queste opinioni con la troppo sbrigativa accusa di qualunquismo o di superficialità. Ogni dopoguerra è figlio legittimo o illegittimo della sua guerra. E chi ha voluto questa guerra, discutibilissima per molti e per non pochi inaccettabile, non può separare le sue responsabilità fra il prima e il dopo, fra l’ottimismo trionfalistico di ieri e il pessimismo inquietante di oggi, fra la presunzione che ha voluto cominciare da sola e il bisogno poi di chiedere aiuto a tutti per cercare di finirla in qualche modo. Le responsabilità di ciò che è accaduto ieri non sono certo isolabili rispetto a quello che accade oggi. E tuttavia è impossibile per tutti rimettere indietro l’orologio e far finta che siamo ritornati ai primi mesi di quest’anno. Purtroppo oggi abbiamo davanti un Iraq distrutto, privo delle sue infrastrutture essenziali, in preda all’insicurezza più totale, stremato nelle sue risorse, senza governo, polizia e amministrazione e bersagliato ogni giorno da un’offensiva terroristica che colpisce a tutto campo.

Purtroppo i pompieri non possono lasciare ai piromani il compito di spengere gli incendi. Ci sono, sparsi per il mondo, cinquantamila caschi blu dell’Onu che cercano di sedare o comunque di contenere almeno venticinque conflitti che certamente non sono stati attirati da loro. E ci sono circa diecimila soldati italiani che cercano di contribuire a questo compito di pacificazione, dall’Eritrea al Libano, dall’Afganistan all’Iraq, appunto. Ora in Afganistan e in Iraq il terrorismo sembra prendere di mira soprattutto quelle forze che come l’Onu (con l’assassinio dell’incaricato Sergio De Mello), la Croce Rossa, le varie organizzazioni umanitarie, e ora anche i nostri soldati, non hanno responsabilità nella guerra, ma sono giunti in questi paesi distrutti con compiti umanitari e di ricostruzione. È evidente che questa guerra terrorista è non solo e non tanto una offensiva antiamericana, ma una «strategia del tanto peggio, tanto meglio», che mette in crisi, se vincente, proprio la posizione di coloro che, contrari a suo tempo alla guerra, insistono perché oggi la fase di transizione sia affidata, sia a Kabul sia a Bagdad, alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale nel suo complesso.

Né si può dimenticare che, se si leggono con un po’ di attenzione i proclami di Al Qaeda, ogni abbandono di un tentativo di pacificazione, da quello del Libano venti anni fa, a quello della Somalia dieci anni or sono, è visto come un trionfo del terrorismo.

Se quindi, nonostante tutto, oggi si deve restare, in Afganistan e in Iraq, è non per perpetrare una occupazione, ma per accelerare nel più breve tempo possibile il passaggio dei poteri al popolo iracheno e per accrescere in questa fase il ruolo dell’Onu e della responsabilità collettiva della comunità internazionale. Il sacrificio ingiusto dei nostri ragazzi ci dice tra l’altro che in molti hanno ormai il diritto di prendere a cuore il domani dell’Iraq, perché in molti hanno pagato.

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