Italia

Referendum sul taglio dei parlamentari, la storia delle riforme mancate

La legge sul taglio dei parlamentari è stata approvata, in seconda deliberazione, da 180 senatori su 320, pari cioè al 56,25% (dunque inferiore ai due terzi); mentre alla Camera dei deputati la maggioranza è stata di 553 voti favorevoli su 630, pari dunque all’88% dei componenti. Pertanto, il referendum si è potuto chiedere per il voto del Senato, allorché il Pd e Leu hanno votato contro, e 59 senatori su 61 di Forza Italia non hanno partecipato al voto. Se il Pd o Forza Italia avessero votato a favore (come hanno fatto nell’ultimo voto alla Camera), il referendum non ci sarebbe stato e la legge sarebbe già in vigore. Al contrario, 71 senatori (7 in più rispetto al minimo richiesto di 64) hanno presentato il quesito agli elettori: chi vota sì, è bene ricordare, conferma la riduzione approvata dal Parlamento, chi vota no, invece, intende respingerla.

Consideriamo ora le ragioni per cui il Parlamento ha ridotto il numero dei parlamentari (da 630 deputati a 400 alla Camera; da 315 senatori elettivi a 200 al Senato). Le motivazioni che sono state addotte in sede parlamentare sono varie.

Tra quelle più sbandierate c’è sicuramente la finalità di ridurre i «costi della politica». Ricordiamo quanto affermò Di Maio: «Le risorse derivanti dalla riduzione degli eletti potranno consentire la realizzazione di 133 nuove scuole o di 67.000 aule per i nostri bambini o di 133 nuovi treni per i pendolari, ovvero l’acquisto di 13.000 ambulanze, o, infine, il reclutamento di 11.000 medici o 25.000 infermieri». Secondo Cottarelli, la riduzione effettiva dei costi è pari allo 0,007 del bilancio statale. Si potrebbe ritenere, al riguardo, che tale riduzione, ancorché assai ridotta, è comunque meglio che niente: soprattutto se la riduzione dei parlamentari migliorasse anche l’efficienza del Parlamento e la rappresentanza popolare. Ma è davvero così?

Ed infatti tra le altre motivazioni che sono addotte vi è questa: «favorire un miglioramento del processo decisionale delle Camere per renderle più capaci di rispondere alle esigenze dei cittadini». In sostanza, meno si è e meglio si lavora (chissà se questa motivazione fosse fatta valere anche all’interno delle aziende o degli uffici pubblici come risponderebbero i diretti interessati). Purtroppo però, che questo effetto possa effettivamente realizzarsi non vi sono certezze, e allo stesso modo si potrebbe sostenere l’esatto contrario, ovvero che così facendo si riducono le capacità del Parlamento di svolgere le proprie funzioni (che, lo ricordiamo, non sono soltanto quelle di approvare leggi, ma anche di fare indirizzo politico, controllo, inchieste, e così via). Ma anche ammettendo che 200 senatori e 400 deputati siano il numero giusto, dobbiamo considerare che un centinaio di essi non saranno quasi mai in Parlamento perché impegnati al Governo (non essendovi incompatibilità tra le due cariche), e altri risulteranno spesso assenti perché continueranno a svolgere le loro professioni private. Una cosa è infatti ragionare su 600 parlamentari «effettivi», altro è ragionare su numeri virtuali. Nessuno parla di definire nuovi criteri di incompatibilità: eppure sembrerebbe una condizione irrinunciabile che chi fa il parlamentare deve fare il parlamentare, e non prendere lo stipendio per fare altro.

Vi è poi un’altra ragione che viene prospettata: con questa riforma ci mettiamo al passo con le altre democrazie europee. Anche su questo riflettiamo. In primo luogo, non necessariamente adeguarsi agli altri è una buona idea: sicuramente all’estero fanno la pizza diversamente che a Napoli, ma questa non è una buona ragione per chiedere ai pizzaioli napoletani di adeguarsi ai loro colleghi svedesi o bavaresi. Ma anche volendosi adeguare, consideriamo i «freddi numeri»: secondo un dossier del Servizio studi del Parlamento, se si confronta il rapporto tra popolazione e deputati nelle Camere «basse» dei 27 Paesi dell’UE, attualmente (cioè senza la riforma) l’Italia si posiziona al quarto posto; il che significa che 22 Stati (su 27) hanno un numero di parlamentari (in proporzione) maggiore del nostro. Con la riforma arriveremo al primo posto, e di gran lunga. Ma – si dice – noi abbiamo anche una seconda Camera elettiva: ebbene, sempre secondo il dossier parlamentare, tra i 13 Paesi in cui è possibile una comparazione noi ci posizioniamo (attualmente) in quarta posizione, e con la riforma arriveremo secondi (dietro la Germania, la cui seconda camera tuttavia non è comparabile con la nostra). Questi i numeri, che ognuno può valutare.

Infine vi è un’altra ragione che viene addotta: e cioè che da ormai 40 anni in Italia si vuole ridurre il numero dei parlamentari, e tutte le proposte di riforma andavano in quella direzione, sebbene ciascuna di esse proponesse numeri diversi. Le due proposte in linea con in numeri della presente legge sono quelle della Commissione De Mita – Iotti (operante tra gli anni 1992-1994) e della Commissione D’Alema (1997). La prima tuttavia non approvò alcuna riduzione ritenendo impossibile «affrontare il tema della riforma del Parlamento se non nella sua interezza. Modifiche parziali avrebbero potuto infatti apparire monche e contraddittorie». La Commissione D’Alema, invece, vi rinunciò al fine di «evitare che una scelta secca di riduzione drastica potesse essere intesa come genericamente ispirata a istanze antiparlamentaristiche e comunque a intenti demagogici». Questi sono dunque le ragioni per cui in passato ci si è fermati: nella storia italiana, pertanto, l’unico che riuscì a portare a 400 il numero dei deputati fu Benito Mussolini, con la legge 17 maggio 1928 n. 1019, con cui tutti i deputati dovevano essere eletti in un collegio nazionale su un’unica lista (il «listone»).