Lettere in redazione
Referendum, la Chiesa e quegli inviti al voto
Ho letto che il vescovo di una diocesi campana ha preso posizione sui referendum con una nota ufficiale. Si lamenta della scarsa informazione e poi «sollecita tutti i fedeli a partecipare attivamente ai dibattiti in corso e considerare se non sia veramente il caso di sostenere la campagna referendaria di quanti invitano a votare sì», ritenendola non «una posizione politica ma squisitamente religiosa: l’ambiente, il paesaggio, i prodotti della terra e quanto fa da splendida cornice al nostro territorio diocesano meritano un’attenzione crescente per impedire ulteriori scempi e degradi». Ma la Chiesa invita a votare «sì»?
Quello che lei cita è il vescovo di Sessa Aurunca, mons. Antonio Napoletano che in effetti ha redatto, congiuntamente al consiglio presbiterale, una nota sui referendum. L’espressione che usa «considerare se non sia veramente il caso…» oltre che involuta è un po’ buffa, ma capisco la preoccupazione di non apparire come il pastore che «istruisce» i suoi fedeli su come votare. Anche altri vescovi sono intervenuti, magari rimanendo più sul terreno dei principi, quello ad esempio dell’importanza dell’acqua come «bene pubblico» e sollecitando la partecipazione al dibattito e ad un voto consapevole.
Un richiamo del genere è stato fatto anche in Toscana dalle Caritas, dagli uffici missionari e da quelli di pastorale sociale e del lavoro, attraverso un documento comune, intitolato «Acqua, Dono di Dio, bene comune e responsabilità sociale» (ne abbiamo parlato nello scorso numero e può essere scaricato dal sito www.caritastoscana.it). Non vi si dice espressamente di votare «sì» ai primi due quesiti, ma tutto il discorso è contro la «mercificazione» dell’acqua e «quelle leggi che la riducono a bene economico», alludendo chiaramente alla legge Ronchi, sottoposta ai quesiti referendari. È singolare che l’Udc, partito certamente sensibile alle posizioni dei cattolici, sia l’unico ad indicare due «no» ai primi due quesiti. Penso che l’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua non sia di per sé un male. Ma non mi convince che debbano sottostare a gare e aprirsi ai privati anche le società pubbliche virtuose, quelle che finora avevano dimostrato di gestire bene il servizio. Anche quel 7% di remunerazione garantita sulle tariffe (secondo quesito) mi lascia perplesso: il rischio fa parte del libero mercato.
Sul nucleare c’è stata meno mobilitazione da parte dei cattolici (che però sono spesso accesamente antinuclearisti), forse anche perché si pensava fosse ormai un quesito superato. Personalmente ritengo che sia stato un errore chiudere le centrali che già avevamo, dopo il referendum del 1987. Ma sono sempre stato scettico sulla possibilità e l’opportunità di far ripartire oggi in Italia un «piano atomico». Non per ragioni «ideologiche», ma per considerazioni puramente economiche (su questo punto condivido i dubbi di Tremonti) e politiche (manca il consenso necessario dei cittadini).
Sul «legittimo impedimento» credo ci sia poco da dire. La legge era sbagliata, ma c’ha pensato la Consulta ad aggiustarla. Così com’è, è forse inutile e nessuno la rimpiangerà se verrà abrogata.
Claudio Turrini