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Referendum, giù dalla giostra delle semplificazioni

di Umberto SantarelliVorrei cercar di fare qualche considerazione spicciola in tema di referendum; ma a voce bassa, anche perché su questa materia e in questi tempi, in Italia e fuori, di gente che cerca solamente di vociare ce n’è anche troppa.Una delle cose che m’hanno colpito di più è stata la facilità con cui parlamentari appartenenti a gruppi che pure avevano approvato la legge 40 ora hanno pubblicamente proclamato l’intenzione di rispondere di «sì» alle domande referendarie. Visto che tanto una noce nel sacco non fa rumore, non voglio arrivare a dire (come forse, in sede puramente teorica, si potrebbe anche sostenere) che in votazioni come queste, nelle quali il Popolo sovrano controlla l’operato del Parlamento, i parlamentari, in quanto controllati, non dovrebbero metter bocca. Ma resta comunque evidente la singolarità di questi «pentimenti» reclamizzati con tanto fracasso non si capisce bene perché: se solamente per far rumore in mezzo a tanto baccano, oppure per distinguersi da compagni di cordata ritenuti insopportabili o solamente per qualche improvviso soprassalto «revisionista».

Un altro aspetto un po’ strano di queste vicende referendarie (oggi di questa italiana, qualche giorno fa di quelle francese e olandese in materia di «costituzione» europea) è la sostanziale ambiguità delle alleanze che si formano intorno alle due possibili risposte antitetiche – «sì» o «no» –; un’ambiguità che rende politicamente insignificanti risultati che alla prima parrebbero chiarissimi, dei quali però (almeno all’apparenza) esultano – contemporaneamente, ma in piazze diverse e per motivi opposti – nemici giurati che quando si trovan per la strada non si salutano nemmeno.

La verità vera è che la politica dovrebb’essere una cosa seria, fatta prima di tutto di riflessioni attente, dalle quali far nascere scelte motivate di regole di comportamento largamente accettabili e di prassi di governo giudiziose; mentre da un pezzo a questa parte tutto sembra ridotto alla confezione frettolosa di messaggi pubblicitari qualunque o all’esecuzione maldestra di giochi di prestigio da fiera di paese.

Quando s’era ragazzi Giorgio La Pira c’insegnò, in pagine indimenticabili, l’importanza vitale delle «premesse della politica», senza le quali tutto si sarebbe ridotto a un fastello di gesti insignificanti. Oggi, più di mezzo secolo dopo quella lezione della quale per grazia di Dio non ci siamo scordati, siamo fragorosamente invitati a tagliare, con le forbici d’un «sì» o d’un «no» che può esser formalmente efficace anche se resta sostanzialmente inadeguato, i nodi complicatissimi di situazioni e di rapporti nei quali sono in gioco valori coi quali sarebbe davvero folle voler giocare a bocce.

Per questo tenersi fuori da una giostra di semplificazioni rumorose non significa affatto confondersi con chi rifiuta d’impegnarsi tutti i giorni e fino in fondo nella «città dell’uomo» o nascondersi in fretta e furia in un allineamento gregario. Questo gesto, che i Costituenti previdero per conservare intatto il valore primario della funzione legislativa, tende solamente a restituire al Parlamento il suo còmpito essenziale nell’attesa (che c’è da sperare non sia temeraria) di vederlo assolto con tutto l’indispensabile rigore.

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