Lettere in redazione
Referendum, firme solo se ammessi
Le regole attuali (legge 357/1970) prevedono che chi vuol indire una consultazione di iniziativa popolare deve presentare domanda, corredata da almeno 500 mila firme autenticate, all’Ufficio centrale per il referendum, che è costituito presso la Cassazione, dal 1° gennaio al 30 settembre. L’Ufficio verifica, entro il 31 ottobre, che le proposte siano conformi alle norme di legge, «esclusa la valutazione dell’ammissibilità» che come prevede l’art. 75 della Costituzione è demendata alla Corte costituzionale, entro il 20 gennaio dell’anno successivo.
Dal primo referendum (quello sul divorzio), celebrato nel 1974, fino ad oggi sono tanti i problemi emersi riguardo all’istituto del referendum abrogativo (quesiti incomprensibili, poche firme necessarie, uso distorto dello strumento, quorum troppo rigido, aggiramento dei risultati…). Tra questi metterei anche quello giustamente segnalato dal lettore. Anche perché frustra la voglia di partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica del Paese. Ma capisco anche la difficoltà oggettiva ad investire la Corte costituzionale della complessa e laboriosa verifica di ammissibilità di decine e decine di ipotetici quesiti. Esser costretti a raccogliere prima le firme è comunque un deterrente che lascia arrivare alla Consulta solo pochi casi di ammissibilità.
Piuttosto i promotori dovrebbero riflettere bene prima di partire con la raccolta delle firme. È vero che l’ultima proposta di referendum sulla legge elettorale, poi bocciato dalla Consulta, aveva il sostegno di un buon numero di costituzionalisti, ma chi s’intende di queste cose sapeva bene che il rischio di una dichiarazione di inammissibilità era fortissimo. E con esso anche quello di sortire l’effetto contrario di «rafforzare», cioé, la legge che si intendeva abrogare.
Claudio Turrini