Opinioni & Commenti
Referendum Fiat, ottenuto sotto minaccia l’unico risultato che consenta prospettive
di Giuseppe Savagnone
Nel mondo contemporaneo l’irruzione della realtà virtuale sta rimettendo in discussione l’esistenza stessa di quella che virtuale non è e che, fino a ieri, eravamo abituati a chiamare, semplicemente, «realtà». È così che, nei titoli giornalistici l’esito del referendum svoltosi tra i lavoratori della Fiat Mirafiori è stato presentato come «la svolta storica del sì» e un segno del «coraggio degli operai di andare avanti».
Comprendiamo le ragioni che hanno spinto tanti compresa una buona parte della «sinistra» ad auspicare questo risultato, l’unico, probabilmente, che consente prospettive economiche favorevoli a breve e a medio termine per gli stessi operai, per la città di Torino, per il Paese. Quello che, in coscienza, non possiamo accettare è che venga etichettato come un atto di responsabilità dei lavoratori, tacendo, o lasciando in secondo piano, un fattore sicuramente importante e forse decisivo che ha contribuito a determinarlo, e cioè la minaccia, fatta esplicitamente e reiteratamente dall’amministratore delegato dell’azienda, di chiudere lo stabilimento, spostando all’estero la produzione, se esso fosse stato diverso.
La «svolta storica», in realtà, non è nell’orientamento degli operai, ma nello stile del datore di lavoro. Per quanto riguarda la volontà dei primi, la dice lunga il fatto che, malgrado l’alternativa al consenso fosse la perdita del salario e, per molti, la fame, metà di loro hanno preferito dire «no», con una percentuale che supera di gran lunga quella degli aderenti alla Fiom. Quanto ai «sì», siamo ben lontani dal considerarli un segno di viltà, come qualcuno ha fatto: quando si hanno moglie e figli, piegarsi a una minaccia è una dolorosa necessità. Salutare questo, però, come un atto di responsabile adesione alle «magnifiche sorti e progressive» del mercato globalizzato è sarcasmo.
Qualcuno dirà che la presa di posizione di Marchionne era l’unico modo di sconfiggere la prepotenza dell’ala dura del sindacato. Ci può essere in questo una parte di verità. Siamo stati più volte testimoni, questo è vero, di una cecità e di un’arroganza sindacali, che hanno preposto interessi corporativi alle oggettive esigenze del bene comune. Anche se, nel caso delle nuove regole che venivano proposte a Mirafiori, non siamo così sicuri che l’opposizione della Fiom sia ingiustificata, non vogliamo entrare nel merito. Ipotizziamo che veramente le nuove regole non ledano in alcun modo i diritti sostanziali dei lavoratori. Sicuramente, però, ha leso la loro dignità un metodo che non ha lasciato alcuno spazio a un serio confronto e che, usato in altri contesti, potrà servire a imporre loro rinunzie ben più gravi di quelle di cui si è parlato in questi giorni.
Lo «stile Marchionne», infatti, è destinato, ovviamente, a fare scuola. Su «Avvenire» di domenica 16 gennaio un titolo recitava: «Gli imprenditori del Nordest: pronti a seguire Marchionne». E nel corpo dell’articolo si leggeva che «sono ben sette ogni dieci le imprese a Nordest pronte a passare dalla contrattazione nazionale a quella aziendale, con notevoli ricadute sul piano salariale». Come se i salari degli operai italiani non fossero già, a detta degli esperti, tra i più bassi d’Europa. Intervistato, il presidente di Confindustria Friuli dichiarava: «È la filosofia di Marchionne che vogliamo applicare».
Già, la filosofia di Marchionne. «O così o pomì», diceva una vecchia pubblicità. Ma è questa la visione dei rapporti di lavoro che vogliamo regoli la nostra società nel futuro? Siamo sicuri che contrapporre all’arroganza sindacale quella padronale sia un guadagno? E che sia un progresso passare da un governo che tradizionalmente difendeva spesso troppo in chiave assistenzialistica gli interessi dei lavoratori, a uno che, per bocca del suo premier, sostiene altrettanto unilateralmente le ragioni degli imprenditori? Nella Caritas in veritate Benedetto XVI ha sottolineato che «la società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani» e che «anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è un’esigenza dell’uomo nel momento attuale, ma anche un’esigenza della stessa ragione economica» (n.36).
Quello a cui abbiamo assistito non ci sembra vada in questa direzione. E probabilmente, come dice l’ultima osservazione del Papa, se ne sconteranno le conseguenze anche sul piano «della stessa ragione economica», se è vero che un’azienda in cui (almeno) metà degli operai si sente oggetto di una costrizione e non ha neppure voce a livello di rappresentanza sconta in partenza un serio handicap anche sul piano dell’efficienza produttiva. A chi, poi, sostiene che non c’era altra scelta, nel mondo della globalizzazione, ricordiamo le parole di Benedetto XVI, nell’enciclica sopra citata, là dove afferma che non ci si può trincerare dietro le anonime leggi del mercato e gli inesorabili meccanismi dell’economia per giustificare comportamenti che in realtà dipendono sempre, in qualche misura, da libere scelte di persone in carne ed ossa (cfr. n.17). E questo coinvolge la responsabilità non solo di Marchionne, ma di tutti noi.