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Referendum, è alta davvero la posta in gioco

di Claudio TurriniDomenica 25 e lunedì 26 giugno per molti italiani sarà la terza o la quarta volta che sono chiamati alle urne nel giro di due mesi. È il primo weekend d’estate e la voglia di andare al mare è più che comprensibile. Eppure se c’è una cosa sulla quale tutti sono d’accordo è che questo voto è importantissimo. Non solo perché non essendo previsto un «quorum» chi si astiene lascia agli altri la decisione, ma anche perché la posta in gioco è altissima. La nostra democrazia, con le sue istituzioni, è la «barca» sulla quale stiamo tutti. Nessuno può guardare con indifferenza al funzionamento del Parlamento o del governo.

Bene ha fatto dunque la Chiesa italiana – e senza contraddizione con quanto detto lo scorso anno per il referendum sulla procreazione assistita – ad invitare gli italiani ad andare alle urne. E a mantenere – come gerarchia – una piena neutralità. Non perché il «sì» o il «no» siano equivalenti, ma perché la preferenza per l’uno o per l’altro non deriva automaticamente dai grandi valori etici – che la Chiesa continuamente richiama – né dal vasto magistero sociale. Dunque, non tiriamola in ballo e manteniamoci su un terreno molto più «laico», senza certezze eterne, ma anche senza anatemi e scomuniche reciproche.

Sappiamo che il discorso non è facile perché dopo un anno di campagna elettorale accesissima e senza esclusioni di colpi, pochi son disposti ad abbassare i toni e a uscire dallo schema angusto del «pro» o «contro» Berlusconi o Prodi.Questa volta l’elettore è chiamato ad esprimere un «sì» o un «no» complessivo alla modifica di ben 53 articoli della seconda parte della Costituzione.

Che qualcuna di quelle modifiche sia accettabile, o perfino buona, conta poco. Il giudizio deve essere complessivo. E la stragrande maggioranza dei costituzionalisti ci dice che nel suo insieme questa riforma non migliorerà il funzionamento dello Stato, ma anzi lo peggiorerà. Anche i professori, che hanno sottoscritto l’appello di «Magna Charta» per il «sì», ammettono che subito dopo il referendum bisognerà aggiustare molte cose. Però se non si sfrutta questa opportunità – aggiungono – si rischia di non arrivare mai ad un accordo per cambiare la Costituzione. Approviamola e poi mettiamoci insieme attorno a un tavolo. Ragionamento che ha una sua fondatezza, ma che non convince. Nel 2001 lo facemmo per la riforma del Titolo V, approvata a stretta maggioranza dal centrosinistra per ingraziarsi la Lega, a pochi giorni dalle politiche. In fondo – si disse – il testo era uno stralcio di quello approvato anche dal centrodestra in Bicamerale. E anche se approvato da una parte sola era sempre meglio di niente. La pensava così anche un esponente del centrodestra, il governatore della Lombardia Roberto Formigoni. E fu un errore. Non solo perché ha dato vita ad un vasto contenzioso tra Stato e Regioni, ma anche perché quella mini-riforma diede l’alibi al centrodestra per condurne in porto da solo una ben più vasta. Errare è umano, ma ripetere lo stesso errore cinque anni dopo sarebbe diabolico.

È il momento che gli italiani mandino un segnale preciso alla classe politica: le modifiche alle istituzioni, così come il sistema elettorale, devono essere approvate con maggioranze ampie, qualificate. Era vero ieri, ma lo è ancor più vero oggi in una situazione di bipolarismo. È una posizione che ha un costo. È il rischio di non arrivare mai a riforme ampiamente condivise. Oltretutto sappiamo già che alcune forze politiche brandiranno l’eventuale vittoria dei «no» per impedire qualsiasi tentativo di riforma, ricattando su questo lo stesso governo Prodi. Ma se non spezziamo ora questa logica delle grandi riforme a stretta maggioranza, domani sarà ancora più difficile. E poi, nonostante i sessant’anni di vita e qualche comprensibile ruga, la nostra Carta costituzionale non è così da buttare. Merito di quei costituenti, cattolici, socialisti, liberali e comunisti, che seppero guardare più lontano del loro naso e dei loro interessi di bottega.