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Rebus Carige: non può fallire, ma salvarla con i soldi pubblici è politicamente scorretto
Lasciarle fallire? Dalla Commissione Ue alla Bce, dalle banche centrali nazionali agli organismi tecnici, tutti concordano che una banca in grave crisi debba essere salvata. E anche presto perché il danno resti contenuto. Per anni si è teorizzata invece la necessità che «anche le banche falliscano», altrimenti la certezza di avere uno Stato con il salvagente in mano all’ultimo minuto spinge gli amministratori a comportamenti scorretti, prestiti più rischiosi e minore attenzione del management ai costi. Favorisce gli «azzardi morali» invece che l’oculatezza di gestione.
D’altro canto, un istituto che chiude gli sportelli e fallisce proietta un danno generale che costerebbe molto di più sotto tanti aspetti e soprattutto un panico generale nei risparmiatori, fra i clienti (imprese e famiglie) e i dipendenti. Si romperebbero contratti, prestiti, garanzie in atto con gli istituti sani. Fra le poche banche chiuse dalla sera alla mattina c’è Lehman Brothers (15 settembre 2008) e le macerie economiche del colosso statunitense sono ancora in giro nel mondo finanziario. Fra i due mali, politica e authority, preferiscono quello che appare il danno minore, con qualche novità rispetto al solo intervento dello Stato salvatore.
Da alcuni anni è stata messa a punto una procedura europea «per la gestione ordinata delle crisi bancarie». L’Italia è il Paese che ne sta sperimentando il funzionamento e il commissariamento di Carige (la Cassa di risparmio di Genova dove il principale azionista Malacalza non vuole mettere altri soldi) segue la crisi del Montepaschi (altra banca a lungo controllata da una Fondazione) e di altre realtà locali. In nessuno di questi casi i correntisti puri (coloro che affidano i loro risparmi liquidi alla banca) hanno subito decurtazioni o difficoltà di prelievo. Attenzione però se il deposito liquido supera i 100mila euro per persona e per banca, può diventare disponibile all’ultima fase del salvataggio. Se oltre a essere correntisti i clienti sono diventati obbligazionisti o azionisti delle banche allora sono già scattate pesanti perdite. Con faticosi recuperi, stress, caduta di autostima, sfiducia generale su tutto e tutti.
Cosa cambia? Almeno in teoria si è passati da una filosofia di salvataggio con i soldi pubblici (cioè di tutti) a un criterio più forte: una banca deve essere salvata innanzitutto da chi in quella banca aveva creduto.
Corretto formalmente, difficile da mettere a fuoco. Molti azionisti e obbligazionisti hanno investito nella banca senza conoscere il reale stato di salute o sono stati indotti a comprare titoli dell’istituto che – magari nelle stesse settimane – stava vagliando se concedere un mutuo o un prestito personale o d’impresa. Forzature sono emerse nel crollo delle popolari venete (Vicenza e Veneto Banca). Intorno a quelle crisi locali si è formato un elettorato di risparmiatori traditi e di italiani anti-banche che ha indubbiamente premiato il Movimento 5Stelle mentre la Lega ha dei precedenti perché ha dovuto risolvere vent’anni fa la crisi di un istituto amico (Credieuronord).
Il consenso elettorale ai 5Stelle era maturato su promesse di rimborso, e il governo gialloverde si è mosso in tal senso, ma anche su un «Mai più soldi di tutti per salvare le amiche banche» o «Mai più banche regalate a un euro ad altre banche».
Sul rispetto delle parole d’ordine elettorali Carige è diventato un caso politico. Ora bisogna salvare la banca perché non si può fare diversamente, occorre dare garanzie di Stato alle obbligazioni (altrimenti non le comprerebbe nessuno), sperare in acquirente privato che compri ma vorrà sborsare zero perché dovrà accollarsi i costi di una banca in affanno da anni. C’è l’ipotesi di una nazionalizzazione, magari temporanea, ma anche quella si presterebbe a una lettura di «regalo alle amiche banche». O comunque l’impegno infruttuoso di denaro che è già poco per altre iniziative. È la strada obbligata percorsa da altri governi nei casi precedenti. Carige, come la Tav e le trivellazioni nello Jonio, come l’Ilva o Alitalia, è un banco di prova di realismo per chi ora è chiamato a governare.