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Rapporto Istat: nove gruppi sociali per un’Italia profondamente cambiata

Alla componente economica (reddito, condizione occupazionale) sono state associate quella culturale (titolo di studio) e quella socio-demografica (cittadinanza, dimensione della famiglia, ampiezza demografica del comune di residenza). Il reddito (il reddito equivalente, per l’esattezza, cioè quello rapportato alle condizioni reali delle famiglie) resta l’elemento prevalente ma non esclusivo e questo, spiegano all’Istat, ha consentito di allargare molto il campo visuale e allo stesso tempo di andare più in profondità.

I nove gruppi, secondo la terminologia del rapporto, sono: giovani blue-collarfamiglie degli operai in pensione (questi primi due considerati a reddito medio); famiglie a basso reddito con stranierifamiglie a basso reddito di soli italianifamiglie tradizionali della provinciaanziane sole e giovani disoccupati (questi quattro considerati a basso reddito); famiglie di impiegatipensioni d’argentoclasse dirigente (gruppi considerati benestanti).

L’Istat osserva che la perdita del senso di appartenenza a un classe sociale ha investito con più forza classe operaia e piccola borghesia, che si ritrovano frammentate in più gruppi dei nove, mentre la classe media impiegatizia è ben rappresentabile (l’83,5% si ritrova nel gruppo «famiglie di impiegati») e così pure la borghesia all’interno del gruppo «classe dirigente».

Sono due i gruppi sociali comprendenti famiglie a reddito medio. Il gruppo giovani blue-collar (i cosiddetti «colletti blu») riunisce famiglie in cui nella stragrande maggioranza dei casi il principale percettore di reddito ha in media 45 anni è un operaio assunto a tempo indeterminato e possiede un diploma di scuola media o superiore. Nel gruppo rientrano 2,9 milioni di famiglie (l’11,3% di tutte quelle residenti in Italia), nel 35,6% dei casi costituite da coppie senza figli, per un totale di circa 6,2 milioni di individui (il 10,2% della popolazione). E’ un gruppo molto omogeneo sul piano del reddito e con una quota di persone a rischio di povertà (il 14,9%) inferiore alla media nazionale.

Tra i nove nuovi gruppi sociali descritti nel rapporto Istat quello delle famiglie degli operai in pensione è il più numeroso: comprende 5,8 milioni di famiglie (il 22,7% del totale) e oltre 10,5 milioni di individui. Nel 76,8% dei casi si tratta di nuclei costituiti da una persona o da coppie senza figli. La persona di riferimento ha in media 72 anni e possiede al massimo la licenza media. In oltre il 75% dei casi queste famiglie vivono in un’abitazione di proprietà. Anche in questo gruppo il rischio di povertà (16,4%) è inferiore alla media nazionale, mentre è piuttosto alto il rischio di esclusione sociale (26,9%). Esso è anche il primo per comportamenti a rischio per la salute: eccesso di peso, sedentarietà e consumo eccedentario di alcol.

Il gruppo composto da famiglie in cui almeno uno dei componenti è uno straniero è quello che presenta le peggiori condizioni economiche in base al reddito, con uno svantaggio di circa il 40% rispetto alla media nazionale. E questo nonostante il fatto che, per titolo di studio della persona di riferimento, questo gruppo è secondo soltanto alla classe dirigente e alle famiglie degli impiegati. Vi rientrano 1,8 milioni di nuclei (7,1% del totale) corrispondenti a 4,7 milioni di individui (7,8% del totale). In oltre un caso su tre si tratta di persone sole o di coppie senza figli. E’ il gruppo più giovane, in quanto l’età media della persona di riferimento è 42,5 anni. Oltre la metà di queste famiglie si trova in condizione di rischio di povertà o esclusione sociale e il 27,2% in stato di grave deprivazione.

Le famiglie a basso reddito di soli italiani sono costituite per oltre il 90% da coppie con figli e sono relativamente numerose (4,3 componenti in media). Ecco perché pur rappresentando il 7,5% del totale dei nuclei (1,9 milioni) comprendono il 13,6% degli individui (8,3 milioni). La persona di riferimento ha in media 45,5 anni, un titolo di studio basso (media inferiore per il 54%) e fa l’operaio i sei casi su dieci. Il reddito familiare è inferiore di circa il 30% alla media nazionale, ma all’interno del gruppo ci sono notevoli differenze. La quota di persone a rischio povertà è molto elevata: 33,3%. Una persona su cinque è in condizioni di grave deprivazione. La distribuzione di questi due gruppi è speculare: il primo è presente soprattutto nelle regioni del Centro-Nord, il secondo nel Mezzogiorno.

L’Istat la ha definite «famiglie tradizionali della provincia» e rappresentano il più esiguo tra i nove gruppi sociali presentati nel rapporto 2017. L’elemento tradizionale sta soprattutto nel fatto che in nove casi su dieci il principale percettore di reddito è un uomo e nella presenza di più generazioni. Si tratta di meno di un milione di famiglie (il 3,3% del totale) per 3,6 milioni di individui (6%). Quindi si tratta di nuclei relativamente numerosi (4,3 componenti in media), nella quasi totalità coppie con figli o costituiti a loro volta da più nuclei (8,2%). Vivono per lo più al Sud e in centri al di sotto dei 50mila abitanti. La persona di riferimento ha in media 53,5 anni, possiede al massimo la licenza media e in un caso su due è commerciante o artigiano. E’ uno dei gruppi a minore benessere monetario, ma può contare su un minimo di supporto sociale se è vero che a un rischio di povertà elevato (quasi il 30%) corrisponde una quota di grave deprivazione in linea con la media nazionale (11,8).

Il gruppo «anziane sole e giovani disoccupati» si spiega perché l’Istat non è partito da un’ipotesi a tavolino, ma ha lasciato che fossero i dati a determinare le categorie. In questo caso concorrono i livelli di reddito, la cittadinanza italiana e le modeste dimensioni del nucleo (fino a tre componenti). Detto ciò, il gruppo è comprende 3,5 milioni di famiglie e 5,4 milioni di persone (l’8,9% del totale) ed è costituito per l’88,7% da pensionati, prevalentemente donne in età avanzata (68,4 anni di media) e con pensioni diverse da quelle da lavoro (sociali, invalidità…), mentre solo per l’11,3% da disoccupati, per lo più maschi e con una media di 43,1 anni. Ovviamente si tratta di un gruppo molto eterogeneo ma con un elevato rischio di povertà (39%) e, in particolare, una quota di persone in condizioni di grave privazione (21,6%) quasi doppia rispetto alla media nazionale.

Tre gruppi che l’Istat nel rapporto 2017 accomuna sotto l’etichetta «famiglie benestanti». Le «famiglie di impiegati» sono il gruppo più numeroso in termini di individui, tra le nuove categorie descritte dall’Istituto di statistica. Comprendono 12,2 milioni di persone (un quinto della popolazione) e 4,6 milioni di famiglie, nella metà dei casi coppie con figli ancora in casa. In quattro casi su dieci la persona di riferimento per il reddito è una donna. È un gruppo molto caratterizzato e omogeneo (anche se per un quarto comprende lavoratori in proprio, tra cui un 6,4% di stranieri), con una forte presenza di impiegati della pubblica amministrazione. Il titolo di studio è elevato, il reddito medio equivalente superiore del 14% alla media nazionale. Il rischio di povertà è relativamente basso (9,5%) e in situazione di grave privazione si trova solo il 3,5%, analogamente al gruppo «pensioni d’argento» (3,6%), così definito per distinguerlo dalle cosiddette «pensioni d’oro». In questo secondo gruppo sono compresi 4,6 milioni di individui per 1,8 milioni di famiglie, di cui un terzo di coppie senza figli (forse già usciti dal nucleo). L’età media della persona di riferimento è di 64,6 anni, con un livello d’istruzione alto. È un gruppo molto omogeneo, a reddito elevato, in otto casi su dieci vive in una casa di proprietà. Basso rischio di povertà: 6.1%.

Nel gruppo «classe dirigente» l’Istat colloca 1,8 milioni di famiglie (7,2% del totale, 2,46 componenti in media), pari a 4,6 milioni di individui. Il reddito equivalente è superiore del 70% alla media nazionale ed è pari al 12,2% del reddito totale. La persona di riferimento ha in media 56,2 anni e possiede un titolo di studio universitario.