Vita Chiesa
Ragioniamo sulla nostra anima
«Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa e perdonato il peccato» (salmo 32,1): che dalla Pasqua di duemila anni fa vuol dire: beati noi sempre, e per sempre. Questa beatitudine è irreversibile, e ci è stata data in dono, ce l’ha guadagnata Gesù sulla croce: «Padre, perdona loro».
Sono io colui che è perdonato, sono io quello chiamato «beato» … Eppure quanta consapevolezza ho di questa grazia? Quanto mi lascio abitare e formare da questa beatitudine, che è anche l’aspirazione più profonda del mio cuore? Perché se non ho il coraggio di entrare consapevolmente in questa beatitudine e di assumerla come condizione fondamentale della mia vita, è come se rimanesse vana ogni remissione e inefficace il perdono. Ci succede come a quel servo, che il padrone ha designato suo erede universale e che pur potendo vivere da signore, non essendo all’altezza del dono, continua a fare il servo, questa volta di se stesso, sottomesso ad un ipotetico padrone, che tuttavia egli crede ancora avere reale potere su di lui: «e visse infelice e contento».
Ma il linguaggio di oggi, e con esso la temperie culturale nella quale siamo immersi, teme di parlare di peccato, con la conseguenza che insieme al concetto di “peccato” perdiamo anche quello di «perdono» e di «beatitudine», e siamo così tutti più poveri e disorientati. Nei secoli abbiamo sentito anche il bisogno di distinguere fra peccato «mortale» e peccato «veniale», dimenticando che Gesù è stato sempre molto esigente, fino a dichiarare omicida anche «chi si adira con il proprio fratello» (Mt 5,20ss) e che il confronto cui siamo chiamati è solo sull’amore (cfr. IGv 4,7ss).