Il suicidio dell’adolescente indiano adottato insieme alla sorella da una famiglia toscana “rimanda alla realtà di una stagione dell’esistenza, segnata dalla fatica e dalla gioia di entrare in rapporto con la totalità del mondo, nella convinzione che si è accolti per come si è”. È quanto scrive Andrea Bigalli, vice direttore della Caritas di Firenze, nelle pagine fiorentine di “Toscanaoggi” (n. 14 del 14 aprile 2002), a commento del fatto, avvenuto il 2 aprile. Andrea Bigalli ricorda come l’adolescenza “non sia una stagione facile: si deve imparare a convivere con la sconfitta, a godere dei successi sapendo sempre relativizzarli. Si conoscono durezza e gioia del rapporto con gli altri, s’impara che gustare la vita è possibile, ma ciò vuole impegno, fatica, arte. Una fatica salutare, da cui si passa per capire il valore di sé”. Queste, secondo Bigalli, sono state le difficoltà vissute anche da Marco (nome fittizio adottato dalla stampa): “andandosene ricorda ha lasciato una lettera, in cui racconta di una vita familiare felice, contrapposta a un mondo intorno che non capiva. Marco si sentiva diverso, come ogni adolescente; la coscienza della propria diversità è importante, è significativa per darsi un’identità. Ma non dovrebbe farti sentire troppo solo. Marco era diverso, aveva pelle scura, i natali altrove: i suoi l’avevano adottato, l’India era il suo paese di origine”. Per questo, il gesto di Marco è un’accusa rivolta al rifiuto della “sua diversità. Marco non ce l’ha fatta ad affrontare il giudizio del suo invisibile tribunale, può capitare, qualcuno dirà che non si può parlare di razzismo per una fragilità piegata da una sensibilità troppo forte, eccessiva”. Per Andrea Bigalli “colpisce la lucidità con cui questo giovane ha letto la società a cui doveva appartenere, che cosa occorre perché persone diverse possano convivere decentemente: ‘il mondo potrà diventare pacifico solo se diventerà multietnico'”. Alla luce di tale episodio Bigalli propone che “le famiglie che hanno scelto l’adozione internazionale devono essere aiutate nel loro compito educativo, devono chiedere e aprirsi a questo aiuto”. VAI ALL’ARTICOLO