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Rafforzare l’Onu per un futuro di pace

di Romanello CantiniL’Onu compie sessant’anni. E come tutte le istituzioni umane, ha addosso le ombre di cui si è parlato nei mesi scorsi, ma anche le luci di cui meno si parla. Il Palazzo di Vetro è sotto accusa per corruzione nella gestione delle operazioni del petrolio irakeno in cambio di cibo, ma le emergenze alimentari nelle varie parti del mondo, dall’Etiopia al Darfur, possono contare ancora soprattutto sull’intervento delle organizzazioni dell’Onu. Ha suscitato scalpore il fatto che fra i membri della commissione Onu per i diritti umani siano stati scelti paesi come la Libia e l’Arabia Saudita e tuttavia le Nazioni Unite rimangono la principale occasione di dibattito e di incontro fra tutti i governi del mondo. I Caschi Blu dispiegati in Africa sono stati accusati di abusi sessuali, ma le missioni di pace dell’Onu nel mondo sono ben ventisei in altrettanti paesi. I cinquantamila dipendenti del Palazzo di Vetro sparsi per il mondo non sono certamente pochi, ma equivalgono ai dipendenti della Walt Disney e ad un terzo degli occupati della Mc Donald. Probabilmente con qualche merito in più.

Quello che dell’Onu oggi più colpisce sono semmai le rughe che il tempo ha portato alla sua immagine. La struttura delle Nazioni Unite è oggi ancora la fotografia ingiallita e intatta di un mondo che non è più quello dell’ultimo dopoguerra. Nel consiglio di sicurezza c’è un solo paese (la Cina) che non appartiene al mondo ricco e forse solo per poco tempo ancora. Non c’è nessun altro paese del continente asiatico dove oggi vivono quasi i due terzi degli abitanti del pianeta. Non c’è nessun paese dell’Africa con i suoi ottocento milioni di persone, né dell’America Latina con una popolazione di cinquecento milioni di uomini.

Certamente la responsabilità della gestione dell’Onu non può essere distribuita solo in proporzione ad un indice demografico. Anche il contributo finanziario e la potenza economica e politica di paesi che devono mettere a disposizione mezzi ed influenza devono entrare nel conto. E comunque un allargamento si impone se non altro perché la popolazione del mondo occidentale dal 1945 ad oggi è rimasta quasi stazionaria mentre quella del resto del mondo si è quasi triplicata.

E tuttavia la proposta ora all’ordine del giorno di istituire altri sei membri permanenti del consiglio di sicurezza fra cui ci dovrebbero essere Germania, Giappone, India e Brasile insieme ad altri due paesi ancora da definire è tutt’altro che convincente. La figura del membro permanente con diritto di veto fu in fondo una scelta straordinaria fatta sessanta anni fa per dare una garanzia assoluta a Stati Uniti e Unione Sovietica che già si guardavano in cagnesco e che mai avrebbero accettato una istanza internazionale in cui potevano essere messi in minoranza.

Ma oggi l’allargamento ad altri paesi di questo enorme privilegio costituisce una discriminazione difficilmente sopportabile in un mondo in cui ogni paese sente in termini di pari dignità. Perché Giappone sì ed Indonesia no? Perché mettere dentro l’India e non il suo eterno nemico Pakistan? Perché il Brasile a dispetto della confinante Argentina? Perché la Nigeria e non il Sudafrica? Ed infine perché ad una Europa già sovrarappresentata da Gran Bretagna e Francia si deve dare un ulteriore premio con la promozione anche della Germania nell’Olimpo del mondo?

Se anche a livello di governo mondiale si cominciasse a pensare in termini di democrazia ci accorgeremmo che le cariche permanenti ed i poteri perpetui sono invece monarchia. Al contrario le responsabilità temporanee ed a rotazione sono proprie dei sistemi rappresentativi. In questo senso la proposta italiana di eleggere a turno dei nuovi membri del consiglio di sicurezza dentro una rosa di una trentina di paesi è almeno una riposta di metodo meno squilibrante ed umiliante anche se ancora da perfezionare.

E tuttavia, al di là della riforma del suo sistema decisionale, il problema oggi ancora più cruciale di ieri con cui l’Onu si deve misurare è quello di prevenire la guerra e di conservare la pace nelle forme nuove in cui la guerra e la pace ora si presentano. La «Gaudium et spes» affida in fondo la speranza della pace sul nostro pianeta ad un’Onu più presente e più efficace, ad «una autorità pubblica universale, da tutti riconosciuta, la quale sia dotata di efficace potere per garantire a tutti i popoli sicurezza, osservanza della giustizia e rispetto dei diritti».

Ma di fronte allo scatenarsi della violenza l’Onu ha fallito in Ruanda, a Sebrenica, in Congo. È riuscita meglio nel garantire la indipendenza a Timor Est, nell’organizzare le elezioni in Cambogia, nel perseguire una pacificazione seppure precaria in Sierra Leone. Nell’insieme oggi l’Onu appare più capace di conservare che di riportare la pace. È in grado di mantenere un equilibrio già raggiunto ed è spesso impotente quando deve pacificare un paese o anche proteggere una popolazione.

L’Onu manca oggi innanzitutto di mezzi e di uomini sufficienti a condurre con successo e dovunque è necessario operazioni di pace. I paesi occidentali sono avari nel mettere a disposizione soldati per questi interventi. Dei quarantamila Caschi Blu dell’Onu sparsi per il mondo la maggior parte sono offerti da stati come il Bangladesh, il Pakistan, la Nigeria o il Ghana per i quali l’intervento costituisce una vantaggiosa operazione economica anche se condotta con scarsa efficienza nella pratica.

Ma soprattutto l’Onu rimane quasi sempre debole e smarrito di fronte alle nuove guerre del nostro tempo. Negli ultimi sessanta anni c’è stata una ventina di conflitti classici fra stati come ad esempio la guerra del Vietnam, i quattro conflitti arabo-israeliani, le tre guerre fra India e Pakistan. Solo queste guerre richiamano l’attenzione e la passione dell’opinione pubblica. Ma nello stesso periodo ci sono stati circa 170 conflitti all’interno degli stati di cui quasi sempre l’uomo comune non ha nemmeno notizia. Sono queste guerre che spesso si macchiano dei crimini peggiori (dalla eliminazione sistematica dei prigionieri all’arruolamento dei bambini, dalle mutilazioni volontarie alle distruzioni sistematiche).

Nonostante qualche sforacchiamento operato negli ultimi anni l’articolo 2 della Carta dell’Onu impedisce interventi nelle situazioni interne agli stati. Le Nazioni Unite hanno elaborato durante la loro storia un gran numero di carte sui diritti umani e sui crimini di guerra, ma non sono riuscite ancora a trovare un accordo per stabilire cosa si intende per terrorismo individuale e per terrorismo di stato.

Il tabù della assoluta sovranità statale e la incertezza sui diritti umani da salvaguardare anche all’interno degli stati ha ridotto le possibilità di quella che si chiama «ingerenza umanitaria» in un mondo dove si muore in proporzione sempre meno ai confini e sempre più all’interno del proprio paese. Ed ora anche il segretario Kofi Annan chiede nel quadro della riforma dell’Onu una più precisa definizione del carattere della guerra e insieme le maggiori risorse materiali e umane indispensabili per cercare di mettervi fine.

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