Opinioni & Commenti
Quelle vignette buttano benzina sul fuoco…
«Per favore, in Italia, in Francia, in Europa smettetela con la storia delle vignette di Charlie Hebdo. In una fase così delicata del confronto tra Oriente e Occidente, questa satira rischia di renderci la vita impossibile». A parlare è un missionario che svolge il proprio apostolato nell’ambito umanitario, in un Paese arabo, il quale ha chiesto l’anonimato. Inutile nasconderselo, il dibattito è rovente. Nel frattempo, la tiratura del settimanale transalpino pare abbia raggiunto i cinque milioni di copie. Il caporedattore ha dichiarato: «Non si possono ignorare i morti, ma cercheremo di far ridere».
Lungi da ogni retorica, se da una parte è opportuno ribadire la ferma condanna nei confronti di coloro che hanno perpetrato quell’orribile mattanza (e tante altre in giro per il mondo come, ad esempio, in Nigeria, dove la settimana scorsa sono morte oltre duemila persone), dall’altra il cordoglio per le vittime non può prescindere dal giudizio sull’opportunità di continuare a brandire le matite per difendere il pluralismo culturale e religioso. Intendiamoci, qui nessuno vuole misconoscere la libertà di stampa, ma l’educazione civica sancisce un principio sacrosanto: «Si è persone libere nella misura in cui tale diritto non sia lesivo, cioè non provochi danno (materiale o morale) al prossimo». C’è una linea di demarcazione che separa la libertà personale dal rispetto. Qui non si tratta di una censura, ma di una limitazione che la persona educata dovrebbe elaborare col buon senso. Per dirla tutta: è una questione di civiltà.
In base a quale principio si deve rivendicare la propria libertà di offendere la sensibilità di una persona, o di un popolo di credenti, mancando di rispetto ai suoi simboli religiosi? Un conto è offendere e perseguire i terroristi che hanno commesso un vero e proprio abominio, un altro è offendere gratuitamente la comunità islamica.
Pubblicare vignette oltraggiose sul profeta Mohammed, solo per ostentare la libertà della satira/vignettistica in Occidente – dove presumiamo d’essere sempre i primi della classe, in un universo di popolazioni prelogiche – è scorretto. Questa non è libertà, ma espressione saccente di mentalità coloniale: si ritiene «normale» il nostro modo disinvolto di relazionarci nei confronti del «sacro» e si considera incivile quello dei musulmani, o delle altre religioni che con il sacro si relazionano utilizzando altri codici ermeneutici. Se da una parte è vero che nella cultura europea, in ambiente anarchico, è stata coniata la locuzione «scherza con i santi e lascia stare i fanti» (in contrapposizione a quella tradizionale, di certa pietà popolare: «Scherza con i fanti, lascia stare i santi») – distinguendo e contrapponendo il sacro al profano, sdoganando così la satira – dall’altra, è bene rammentare, che vi sono delle culture estranee a questo indirizzo, come quella islamica.
Detto questo, qualcuno dovrebbe spiegarci come mai, nel 2012, la sentenza dei giudici francesi di Nanterre, nel processo per direttissima contro il settimanale Closer, ha stabilito che la suddetta testata non poteva «diffondere o cedere» in alcun modo e su nessun supporto – in particolare su tablet – le foto senza veli della duchessa di Cambridge e di suo marito, per rispetto della privacy. Vale a dire: la libertà del fotoreporter finisce là dove, infrangendo la riservatezza, si danneggia il diritto della persona alla vita privata. E allora perché un vignettista può infrangere il diritto personale/comunitario al rispetto, in una materia così sensibile come quella religiosa?
Stiamo vivendo una fase delicatissima della Storia umana. Il jihadismo è la mannaia del Terzo Millennio. Esso rappresenta una minaccia globale che affligge credenti e miscredenti, cristiani e musulmani. Sarebbe pertanto auspicabile provare a chiedersi fino a che punto la satira di Charlie Hebdo giovi alla causa della riconciliazione o invece non sia un modo per gettare benzina sul fuoco.
Tutto questo dibattito, per inciso, ha come epicentro la Francia. Una nazione in cui, paradossalmente, si sta portando avanti da anni una sistematica manipolazione della cultura laica a vantaggio di una presunta libertà di espressione basata sulla laicità dello Stato. Questa stortura del sistema democratico ha provocato anzitutto la limitazione della libertà di espressione, nel senso che, da quelle parti, lo Stato decide arbitrariamente quale pensiero, comportamento, azione è bene e quale pericolosa per la società, con la conseguente limitazione della libertà religiosa e di culto, come ad esempio il veto sul velo per le ragazze musulmane nelle scuole. Inoltre, è stata legittimata la superiorità della cultura statuale, che coincide con il pensiero ammesso dallo Stato, nelle sue manifestazioni più estreme, inclusa la relativizzazione del concetto giuridico di diffamazione e di oltraggio. Ciò ha determinato, alla prova dei fatti, una gerarchizzazione delle culture, per cui sono inferiori quelle lontane da ciò che pensa lo Stato e non la società nel suo complesso. Dispiace doverlo scrivere, ma i dogmatismi laicisti non giovano alla causa della cultura laica. Per dirla con Papa Bergoglio: «È un’aberrazione uccidere in nome di Dio», ma per quanto riguarda la libertà di espressione «c’è un limite».