Opinioni & Commenti
Quel popolo già forte di una fede comune che ha saputo costruire una convivenza civile
di Domenico Delle Foglie
Al di là della retorica, ogni celebrazione è figlia del proprio tempo. Se nel 1961 l’Italia del Centenario era un Paese che correva ottimista verso il futuro, questo 2011 la vede ingrigita e frenata dalle sue mille precarietà. Nulla di strano, quindi, se questi 150 anni d’Italia possono sembrare dimessi. Piuttosto sarà bene non confondere l’inevitabile sobrietà dettata dai tempi di crisi economica con il necessario ripensamento della nostra storia comune, delle nostre radici, del nostro crescere come comunità nazionale.
In una parola, del riconoscerci come popolo che ha condiviso un lungo pezzo di strada e che solo una storiografia avara può considerare fallimentare o privo di significato ideale e sociale. Guai a considerare questi nostri 150 anni solo attraverso la lente d’ingrandimento della politica o attraverso il buco della serratura del gossip, delle angustie delle letture classiste che spesso favoriscono i progetti dei poteri forti, delle analisi semplificatorie che riducono la nostra storia e la nostra vita a una lunga sequela di luoghi comuni e talvolta di autentiche banalità.
Ecco, la nostra storia merita rispetto. Non siamo una semplice “espressione geografica” come amava sostenere Metternich, ma non siamo neppure un “Paese da operetta” come a tanti è piaciuto dipingerci, complici a dire la verità certi nostri eccessi verbali e comportamentali. E non siamo neppure il Paese della pizza e del mandolino o della pistola fumante nel piatto degli spaghetti. E neppure quello delle Papi-girl, ossessionato dal corpo di donna. E tanto meno un Paese ignorante e scansafatiche, maschilista e arrivista, furbo e pasticcione. Certamente sbaglia chi vuole raccontarci sempre e soltanto nella prospettiva dei nostri vizi, quasi che lo Stivale fosse la sentina di tutte le turpitudini. Ma sbaglia anche chi non si attrezza mai a raccontare le nostre virtù. A partire dalla tenuta della famiglia, dei corpi intermedi, delle comunità locali e del volontariato. Ma anche dell’accettazione della fatica quotidiana e del rischio imprenditoriale, della scelta dello studio serio e persino del salario talvolta appena sufficiente per vivere.
Forse dovremmo ricordare i Padri della Patria e celebrare il Risorgimento, ripercorrere le gesta dei carbonari e dei garibaldini, riconsiderare il ruolo di Casa Savoia e riscoprire i Borboni, rianalizzare il peso del Papato e la lotta al brigantaggio, chiarire una volta per tutte se l’Unità sia stata una semplice campagna di conquista e di annessione o un processo irreversibile della storia, interrogarci nostalgicamente su quale sarebbe stato il destino del Sud se fosse rimasto indipendente, rileggere le due Guerre mondiali e i terribili prezzi umani pagati.
E poi, ancora: il Fascismo e il secondo Risorgimento, la Ricostruzione nel Dopoguerra e la Prima Repubblica. E per finire: l’agonia della Seconda Repubblica e l’attesa di una Terza Repubblica che fatica a nascere. Tutto questo lo lasciamo agli storici e alle loro analisi raffinate e talvolta anche tendenziose. Noi ci limitiamo a dire che oggi è più forte la consapevolezza che c’era un’Italia prima dell’Italia, portata a sintesi dal Risorgimento. Un’Italia di popoli e di popolo la cui consapevolezza, al di là degli oggettivi limiti culturali e di comunicazione, era molto più avvertita di quanto noi siamo forse riusciti a percepire.
Troppe volte abbiamo sentito ripetere, anche con una punta di insopportabile snobismo, che «fatta l’Italia bisogna fare gli italiani». Frase contesa fra Massimo D’Azeglio e Camillo Benso conte di Cavour. La verità è che quell’espressione era un surrogato dei tic delle classi dirigenti del tempo che posero le basi per il saccheggio economico del Sud come del primo grande scandalo della storia italiana che fu il crac della Banca Romana. Insomma, la fastidiosa reazione di una classe borghese dinanzi alla fatica di unificare materialmente, moralmente e idealmente un popolo. Ma per fortuna, come è accaduto regolarmente nella storia d’Italia, gli italiani hanno fatto da sé. Hanno imparato a conoscersi e a convivere, a scoprire i propri limiti e ad apprezzare le proprie qualità umane.
Un popolo già forte di una fede comune, di una religiosità di popolo, ha saputo costruire una convivenza civile adeguata ai tempi anche difficili. Ecco, la persistenza del Cristianesimo nelle sue forme storiche e sociali ha modellato il vivere civile e la storia sociale, così come ha inciso sul carattere nazionale e persino sul modello repubblicano.
Per tutte queste considerazioni il 17 marzo è certamente la Festa dell’Unità d’Italia, ma è indubitabilmente la celebrazione di un popolo non rassegnato, ma realista, che l’Unità se l’è fatta da sé. Perché, purtroppo, le sue classi dirigenti non si sono sempre dimostrate all’altezza delle sfide della storia. Ecco perché la nostra storia sociale, non ancora adeguatamente indagata, è la migliore cartina di tornasole dell’Unità reale. Quella di popolo.