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Quel muro, monumento all’odio e alla fine della libertà

di Romanello CantiniPer secoli gli ebrei sono vissuti dietro un muro. Quello del ghetto. Era una delle più vergognose forme di discriminazione, di emarginazione e di umiliazione nei loro confronti costruita da altri.

Ora sono gli ebrei di Israele che si dicono costretti a costruire loro un muro intorno a sé per centinaia di chilometri. Per difendersi, dicono, dai terroristi suicidi che fanno saltare in aria i loro autobus, i loro bar, i loro mercati. E aggiungono che, laddove il muro è già stato costruito, gli attentati sono diminuiti.

Ma ogni muro è un monumento alla fine della libertà, una materializzazione dell’odio, un’arma di guerra seppure difensiva, una insonorizzazione seppure simbolica per qualsiasi voce che cerchi di bucarlo da una parte o dall’altra. Di più in Palestina anche i nemici non possono vivere senza scambiarsi lavoro e merci.

Infine il muro che si sta costruendo invade i territori palestinesi per cercare di difendere i coloni. Anche il codice civile ci dice che un muro o è comune o deve essere costruito dentro i propri confini.

Della legalità della costruzione si sta occupando la Corte internazionale di giustizia, principale organo giurisdizionale Onu, riunita in questi giorni all’Aja, in Olanda. Ma è chiaro che questo muro che trabocca ampiamente nei territori palestinesi appare inevitabilmente non solo come il sacro recinto di per sé legittimo che delimita la patria, ma anche il blocco di cemento arrogante messo all’estremità di una conquista illegale. Per questo porterà forse più sicurezza, ma meno pace. Anche se chi semina il terrorismo non può poi meravigliarsi delle reazioni frenetiche di chi è stato gettato in preda al terrore.