Toscana
Quei valori che solo la sofferenza insegna
La Giornata della vita, la Giornata contro la lebbra, la Giornata del malato…, per non parlare delle altre Giornate di altro tipo. Non c’è il rischio, monsignor Santucci, che molte di queste Giornate passino sotto silenzio, che le comunità locali, le parrocchie non raccolgano il messaggio che viene dall’«alto»?
«Le Giornate proposte e celebrate nelle varie comunità cristiane, parrocchie, associazioni, movimenti, sono certamente una proposta lieve per la vita cristiana, personale o comunitaria, e rischiano di essere poco incisive se considerate in sé, ciascuna per suo conto. Se invece sono colte come espressione e sottolineatura di un itinerario di spiritualità e di carità che si vive e si esprime continuamente, nel quotidiano e feriale vivere del cristiano, hanno tutto il loro significato. Quante sono le associazioni di volontariato che pongono le loro risorse, spirituali, culturali, umane al servizio dei malati, degli handicappati, dei sofferenti in generale? Quante sono le associazioni che offrono assistenza, conforto, sostegno alle persone, alle famiglie e alle categorie di persone e professioni che sono intorno agli ammalati? Può, ciascuno di noi, fare a meno di imbattersi nella sofferenza di un amico o di un familiare? La Giornata del malato con il suo impegno di ricerca, di studio; con le sue proposte di riflessione; col chiamare a raccolta tutti gli operatori della salute e della solidarietà è occasione espressiva di celebrazione, di riflessione, di conoscenza».
Com’è nata la Giornata del malato?
«La Giornata nasce, come tante altre analoghe iniziative, per sollecitare una società come la nostra dove l’efficienza e il successo sono miti che travolgono le persone. Una visione estetica e godereccia della esistenza rischia di far dimenticare le esigenze prime di una convivenza civile che sono il rispetto delle persone, la loro dignità e promozione, la tutela dei diritti dei più deboli e poveri. Pensi semplicemente alle barriere architettoniche e al loro significato in termini di civiltà».
Il tema della Giornata di quest’anno, «Il dono di sé», sembra in apparenza spostare l’attenzione dal malato a chi entra a contatto con i malati: operatori sanitari e volontari. È così?
«Dono di sé certamente dice disponibilità di sé. Sembra che solo chi è sano possa donare. In realtà non è così. Dono di sé dice amicizia, condivisione; dice oblazione, visione di una vita liberata dal male. Sono valori che appartengono a tutti, soprattutto a chi soffre. Chi è ammalato vede la vita in modo diverso da chi è sano. Scopre il bisogno, la fragilità, la gioia della vicinanza e dell’attenzione. Sono valori di cui abbiamo bisogno e che forse, solo la sofferenza sa insegnarci».
Tra chi vive a contatto con i malati ci sono prima di tutto i familiari. Quale deve essere il loro atteggiamento soprattutto nel caso che il congiunto abbia una malattia grave come il tumore, oggi particolarmente diffusa?
Solo in Italia sono presenti 141 ospedali, 119 ambulatori, un lebbrosario, 1.813 tra case di ricovero per anziani, lungodegenti o portatori di handicap, 505 consultori familiari. Numerose anche le aggregazioni di servizio ed associazioni impegnate su tutto il territorio nazionale nell’assistenza ai malati e nella pastorale sanitaria.