Opinioni & Commenti
Quei disastri naturali che di naturale hanno poco
Confesso però che io non sono più così sicuro che si debba definire tutto questo naturale. La pioggia, anche quella più abbondante e concentrata, è certamente naturale e rispetta un ciclo che l’uomo conosce quasi da sempre. I nostri vecchi in passato, anche nelle giornate più radiose, vuoi per un cambiamento della temperatura o del vento, vuoi per l’approssimarsi di nuvole innocenti all’orizzonte, erano capaci di dire: arriva la pioggia. Non erano maghi, semplicemente avevano l’esperienza frutto delle loro ripetute osservazioni e della loro conoscenza, che a sua volta si fondava anche su quella dei loro avi la cui vita usava il e del territorio e non lo offendeva. Così come è naturale lo scorrere dell’acqua nei fiumi e nei torrenti che per altro sono elemento fondamentale dell’evoluzione della superficie terrestre.
Anche le piene dei fiumi sono fatto naturalissimo così come le esondazioni, che altro non sono se non l’occupazione del fiume, in determinate condizioni di portata, di spazi di territorio che, appunto naturalmente, sono destinati ad essere invasi dall’acqua del fiume in determinate circostanze ma, si badi bene, rimangono comunque destinati a quello scopo anche quando l’uomo, nella sua fame di territorio e nella sua pervicace ed incontrastata opera di sfruttamento speculativo, li destina a insediamenti urbani o a opere definite con espressione ridicola «non altrimenti localizzabili».
Ciò che invece, certamente, non è naturale sono gli argini che crollano, perché vetusti, o poco monitorati e mai manutenuti, o perché progettati male ed eseguiti peggio; sono la costrizione in cui l’uomo poco previdente e qualche volta interessato, ha costretto il corso d’acqua in un determinato tratto.
Ma il fiume quello spazio, quando l’uomo non glielo ha lasciato, lo ritrova senza chiedere il permesso a nessuno e non si ferma davanti ad abitazioni, ponti, strade, vite.
I geologi da almeno trent’anni, ma con più forza e autorevolezza negli ultimi cinque, hanno sempre denunciato questo stato di cose. Anche quando correvano il rischio di essere considerati cassandre. Oggi poi ci sono le cosiddette «bombe d’acqua», figlie dei cambiamenti climatici, che sono spesso associate all’imponderabilità.
Tutte parole. Tutte parole che servono solo a quietare la coscienza di coloro i quali direttamente o indirettamente hanno omesso, e omettono tutt’ora, di avviare una seria, vera, concreta, efficace politica di prevenzione.
Parola bellissima laddove davvero significhi anticipare qualcosa di indesiderato e negativo. Ma che presuppone una serie complessa di passaggi. Per primo la conoscenza: del territorio in ogni sua piccola sfaccettatura e della sua evoluzione naturale; delle oggettive situazioni di pericolo siano esse rappresentati dalla morfologia e conformazione del territorio che da opere dell’uomo.
Poi dal rischio, ovvero dalla probabilità che il pericolo, laddove effettivamente si concretizzi, colpisca opere dell’uomo, abitazioni, luoghi di lavoro, vite umane. In ultimo, dalle azioni che quel rischio devono eliminare o concretamente ridurre, secondo una scala di priorità oggettiva dalle zone a più alto a quelle a più basso rischio. Azioni che vanno progettate con intelligenza e sapienza e che siano specifiche per quel territorio e per quella peculiare situazione tenendo nel debito conto anche le delocalizzazioni. Le azioni dell’uomo infatti non possono essere disgiunte dalle caratteristiche proprie della porzione di territorio sulla quale si intende effettivamente operare. Lo dico perché oggi in Italia c’è ancora, purtroppo, ed hanno nomi e cognomi, chi pensa che questo non sia necessario ed è così ascoltato e influente da condizionare secondo questa visione retrograda, suicida e pericolosissima, anche le normative tecniche.
Non c’è nulla da fare: ripioverà, si rinnoveranno le distruzioni e purtroppo, piangeremo altri lutti.
*vice presidente del Consiglio nazionale geologi