Dossier
Quaresima, alla riscoperta delle «virtù»
Toscana Oggi propone, nelle domeniche di Quaresima, un percorso alla scoperta delle virtù. Un tema che può sembrare «antico», ma che in realtà ha molte cose da dire all’uomo di oggi. Un tema che giunge fino a noi attraverso la storia della filosofia e del pensiero cristiano, della letteratura, delle scienze umane.
Riprendendo l’antica classificazione, il Catechismo della Chiesa Cattolica contempla le «virtù umane», che si raggruppano intorno a quattro «cardini»: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Queste, a loro volta, hanno la loro radice nelle tre virtù «teologali», quelle cioè che hanno Dio come origine e come oggetto: la fede, la speranza, la carità, che sono «infuse da Dio nell’anima dei fedeli».
Ha ancora un senso, oggi, questa catalogazione? È ancora comprensibile? Siamo in grado, nella nostra vita quotidiana, di individuare quali sono i comportamenti «virtuosi», che rientrano quindi sotto una delle sette virtù, e quali sono invece quelli che ci allontanano dal bene?
Il discorso sulle virtù poi è strettamente legato ad altri temi di cui oggi si parla tanto. Come la libertà: il Catechismo ci insegna che «quanto più si fa il bene, tanto più si diventa liberi». O come la felicità: le virtù «procurano facilità, padronanza di sé e gioia», e «l’uomo virtuoso è felice di praticare le virtù».
Per questo, quindi, il nostro settimanale ha scelto di dedicare alle sette virtù «cardinali» e «teologali» questo percorso quaresimale, che faremo con l’aiuto di vari esperti, e in particolare di alcuni docenti della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale. La felicità? Si realizza con azioni virtuose (di ADRIANO FABRIS)
Prudenza
Temperanza
Fede
Speranza
Giustizia
Fortezza
Carità
Quattro virtù hanno funzione di «cardine». Per questo sono dette «cardinali»; tutte le altre si raggruppano attorno ad esse. Sono: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. (1805)
Per l’uomo ferito dal peccato non è facile conservare l’equilibrio morale. Il dono della salvezza fattoci da Cristo ci dà la grazia necessaria per perseverare nella ricerca delle virtù. Ciascuno deve sempre implorare questa grazia di luce e di forza, ricorrere ai sacramenti, cooperarecon lo Spirito Santo, seguire i suoi inviti ad amare il bene e a stare lontano dal male. (1811)
Le virtù teologali fondano, animano e caratterizzano l’agire morale del cristiano. Esse informano e vivificano tutte le virtù morali. Sono infuse da Dio nell’anima dei fedeli per renderli capaci di agire quali suoi figli e meritare la vita eterna. Sono il pegno della presenza e dell’azione dello Spirito Santo nelle facoltà dell’essere umano. Tre sono le virtù teologali: la fede, la speranza e la carità. (1813)
Qualche anno fa ebbi occasione si scrivere su vizi e virtù negli intendimenti degli scrittori cristiani dell’antichità, i quali, se di retta dottrina e santi e riconosciuti dalla Chiesa, sono detti Padri. Proprio i Padri della Chiesa assumono la parola «virtù» dal latino virtus, con cui si traduceva anche il greco areté. Quei termini di per sé volevano dire «capacità», «pregio», «valore» e infine «moralità»: i Padri derivavano il senso di «virtù morale» più dagli scrittori pagani, soprattutto filosofi, che non dalle sacre Scritture.
Nell’Antico Testamento il termine greco in senso morale si trova, probabilmente tra primo secolo avanti e primo dopo Cristo, nel Libro della Sapienza. Nel Nuovo Testamento «virtù» (areté) come oggetto della preoccupazione del cristiano appare soltanto nella Lettera ai Filippesi (4,8) e nella Seconda lettera di Pietro (1,3) che contempla un crescendo dalla fede alla virtù e da questa alla conoscenza di Dio.
Ora, per la presenza della parola nel Nuovo Testamento i Padri si sentirono non solo autorizzati, ma in certo modo anche obbligati ad usarla. Era per loro anche una necessità, se volevano farsi capire da coloro che, vicini per lingua, affetti, parentela, cultura e società in genere, erano nel contempo destinatari dell’evangelo tramite la loro predicazione. I Padri intendevano anche acquisire – se non sempre riconoscere e apprezzare – quel che di vero e di buono c’era nella riflessione filosofica: penso a Socrate e «figli e figlie», come i cinici, Platone e Aristotele, stoici ed epicurei con critiche reciproche e mutui prestiti; e poi Cicerone e Seneca, Plutarco e Marco Aurelio; ed anche Ipazia almeno nell’affettuosa gratitudine del vescovo Sinesio di Cirene, e i neoplatonici cacciati da Giustiniano i quali, anche tramite gli arabi della Spagna, fornirono all’Occidente latino motivi e strumenti di pensiero, per pensare fede e vita cristiana ormai nel secondo millennio.
A suo tempo, anzi nella misteriosa «pienezza del tempo», il fermento evangelico era entrato nei moduli antichi e negli esempi da imitare, diffondendosi in una varia umanità da perfezionare, lievito che è la stessa persona ed opera del Cristo, Dio e uomo, maestro e redentore, con l’apporto anche letterario della molteplice tradizione biblica e con i suoi sviluppi nella Chiesa e nella città degli uomini.
Pongo queste considerazioni o a mo’ di premessa per una inquadratura e un approccio alla virtù dinamicamente intesa e forse umanamente appetibile. Ecco ora due esempi di un diverso rapportarsi alla virtù da parte di due grandi cristiani, i santi Giovanni Crisostomo ed Agostino, tra quarto e quinto secolo rispettivamente nell’oriente greco e nell’occidente latino.
Giovanni parla di una virtù umana, perché conforme all’umanità: ardua, certo, ma liberante e e di per sé inossidabile. Sono anche remote consegne dell’antico Socrate, consegne assunte e confermate dal cristianesimo fino al martirio. C’è infatti una «virtù specifica» all’uomo rispetto alle altre «virtù» di altri animali come cavalli e asini, virtù che consiste in un «convincimento» e in una «vita» come si deve, di un ideale di uomo a tutto tondo, come fosse una statua classica: un paragone, quello dello scultore, con cui il Crisostomo delinea il pastore d’anime con la sua arte educativa per un progetto nel contempo etico ed estetico di fede e vita cristiana.
Agostino conosce la fragilità dell’umana natura incline al male non solo per imitazione del peccato dei progenitori, ma per un reale influsso di quel loro peccato su di noi nella condizione in cui ci apriamo a questa vita. Il brano è un’eco del desiderio di liberazione e insieme di compimento della volontà di Dio: è la voce dell’uomo misero che invoca la misericordia di Dio che lo fa nuovo, capace di vita divina all’insegna della preghiera e dell’umiltà, perché ogni virtù nella creatura umana è dono di quel Dio che, per il dono della perseveranza finale nella sua grazia, «coronerà i suoi doni, non i tuoi meriti» (Esposizioni sui salmi)
Eppure Agostino, forse il primo a prendere sul serio – anche troppo? – il Paolo delle lettere Ai Galati e Ai Romani, ci parla di umiltà senza la quale si finisce per fare eco alla la preghiera del fariseo al tempio, virtuosissimo e piissimo, quanto si vuole, ma di una virtù superba e di una religiosità supponente e odiosa. Si finisce così per ritrovarsi nella contraddizione, perché la superbia, chiudendo in sé l’essere umano nell’illusione di essere il Padreterno, lo estranea dalla carità, che è la maggiore preoccupazione della teologia di Agostino, come della serena pastorale del Crisostomo.
Certo, il cattolicesimo è tentativo di un’ardua sintesi delle due sensibilità, quella del Crisostomo e quella di Agostino: tra la fiducia in un Dio amorosamente provvidente e gioioso delle realizzazioni morali dei suoi figli e l’umile trepidazione che si fa invocazione di un continuo aiuto divino. In Dante c’è l’incoraggiamento di Virgilio al poeta di stare «come torre ferma che non crolla / già mai la cima» (Purgatorio, canto V) e c’è anche una parafrasi del «liberaci dal male» del paternostro: «nostra virtù che di leggier s’adona», ossia che facilmente cede, «non spermentar con l’antico avversaro», il demonio (Purgatorio, canto XI). Il Concilio di Trento fa allusione a un detto di Agostino, simile a quello citato, su Dio che «allora», nel paradiso, «coronerà non tanto i tuoi meriti, quanto i suoi doni» (Agostino, Sermoni al popolo); eppure si affretta a precisare che Dio stesso «vuole che i suoi doni siano anche meriti degli uomini» (Concilio di Trento, Decreto sulla giustificazione): sono le belle «realizzazioni» morali (katorthómata) di cui si compiace il Crisostomo, di cui a maggior ragione si compiace Iddio.
Un un testo di alcuni anni fa, dal titolo «Ritorno alle virtù» (Mondadori, 2005), Gianfranco Ravasi introduceva in questi termini: «Perché proprio un libro sulle virtù, se esse sono sempre più pianticelle intisichite o figure emarginate? La risposta è in una sorta di legge della storia: quando una realtà viene a mancare, si ritorna a sentirne la nostalgia e la necessità».
A molti appare anacronistico continuare a proporre la virtù come espressione di un’esistenza realizzata e felice, probabilmente a causa di una eccessiva enfasi posta, in passato, sulla necessità di acquisire comportamenti buoni e virtuosi come garanzia della propria fede e della propria moralità; quasi un rigurgito di moralismo, dal quale sempre più fortemente ci si vuole affrancare in nome di una affermazione di sé autonoma, spontanea e libera. È significativo che gli Orientamenti della Cei per il prossimo decennio non esitino ad esprimere il fine dell’educazione con una categoria oggi piuttosto in disuso nel vocabolario e nello scenario comune: la bontà; la «vita buona», quindi virtuosa, è indicata come l’oggetto e insieme il fine del processo formativo, come a dire che l’uomo pienamente maturo e realizzato è l’uomo buono. In realtà, è proprio la domanda di felicità che l’uomo di sempre e da sempre si porta dentro, che consente di ri-comprendere e ri-collocare le virtù nei nostri orizzonti di pensiero, nei nostri ideali di realizzazione, nei nostri spazi di decisione.
Viene spontaneo andare a sfogliare le pagine del Vangelo per carpire indicazioni preziose sull’argomento; rimaniamo stupiti, però, nel constatare che proprio nel Vangelo non si parla mai di virtù! Gesù sembra escludere dal suo insegnamento autorevole questo concetto, che del resto in tutta la Scrittura appare di sfuggita, rare volte.
«Maestro, cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?» Questa è una domanda eterna, «è una domanda di pienezza di significato per la vita. E, in effetti, è questa l’aspirazione che sta al cuore di ogni decisione e di ogni azione umana, la segreta ricerca e l’intimo impulso che muove la libertà. Questa domanda è ultimamente un appello al Bene assoluto che ci attrae e ci chiama a sé, è l’eco di una vocazione di Dio, origine e fine della vita dell’uomo» (Giovanni Paolo II, Veritatis splendor). La risposta di Gesù: «Perché mi chiami buono?», colpisce: proprio a Lui, infatti, a Lui che non attribuisce a se stesso la bontà, ma che immediatamente la rimanda al Padre come al «solo buono», guardiamo spontaneamente come al modello di ogni virtù; Gesù il mite, Gesù l’accogliente, Gesù il misericordioso, Gesù il paziente, Gesù il pacificatore Eppure: «Perché mi chiami buono?». No, non è strana, questa apparente omissione: la vita del discepolo – come quella del Maestro – è fondamentalmente una vita graziata, cioè una vita il cui dato primo e imprescindibile è un dono che la precede, la riempie, la alimenta, la muove; per usare un’immagine cara alla Letteratura biblica Sapienziale, è come un albero che, piantato vicino all’acqua, affonda le radici in un terreno buono che gli è dato, e così cresce e porta frutti al tempo opportuno. Solo Dio possiede la linfa vitale, e la «buona notizia» è che la vuole condividere con noi.
L’esistenza umana, allora, non è buona, bella e vera (in altri termini: virtuosa) perché e nella misura in cui è fruttuosa, ma è capace di dare frutti abbondanti perché è per grazia buona, bella, vera.
Credo che sia proprio in questa ottica di relazione tra dono e impegno la chiave per restituire alla vita virtuosa la sua centralità nel cammino dell’esistenza umana, prima ancora che cristiana: le virtù, lungi dall’essere in prima battuta il risultato di uno sforzo umano oggigiorno considerato quasi eroico, sono le concrete possibilità di risposta ad un amore già innestato nel cuore dell’uomo; pertanto, la questione non sta nel negarne o, all’opposto, nel difenderne apologeticamente l’attualità, ma in un più semplice e umile riconoscimento del fatto che fino a quando esisterà l’essere umano, quello sulle virtù non sarà un discorso da reinventare, ma una realtà esistenziale da accogliere. Sicuramente, nella riflessione, come nella pastorale come nella predicazione, c’è bisogno di restituire alle virtù alcune prerogative di fondo forse scolorite se non addirittura perse nel corso del tempo; c’è bisogno di rivederne la bellezza e la luminosità per riappropriarci di quel «siete luce del mondo» che Gesù ci consegna come un dato di fatto certo della nostra esistenza.
Prima di tutto: le virtù sono possibilità di bene, modi effettivi di rendere visibile e credibile la nostra risposta all’unico comando che Gesù ci ha dato: «Amatevi come io vi ho amato». San Paolo ci ha lasciato due pagine molto belle e sempre attuali che proprio per la loro chiarezza e concretezza ci dicono come declinare la virtù per eccellenza, che è la carità in tante altre virtù strumentali a quella: una pagina è il così detto Inno alla carità, una descrizione, se vogliamo, dell’uomo virtuoso che tende alla pienezza dell’amore non in termini di idealizzazione spiritualistica, ma di vita quotidiana. L’altra pagina è l’elenco, altrettanto famoso, dei frutti dello Spirito che, se in prima istanza sono da riconoscere come dono dall’alto, diventano poi compito per quanti vivendo dello Spirito, camminano anche guidati dallo Spirito.
In secondo luogo, le virtù sono realtà relazionale, non individualistici sforzi verso una perfezione personale di cui compiacersi e per la quale sentirsi farisaicamente a posto. Proprio perché rappresentano i mille volti dell’Amore, le virtù costruiscono relazioni, cementano rapporti, alimentano comunione; in questo senso non possono che essere sempre attuali, proprio perché rispondono all’anelito di fratellanza, giustizia, pace, che ogni uomo e ogni Popolo possiede e cerca di raggiungere.
Infine, le virtù sono realtà universali, cioè non ristrette all’ambito religioso né tanto meno ad una delle sue più tipiche dimensioni, quella dell’ascesi; al contrario, ogni uomo – in quanto aspira al bene e alla felicità – può riconoscere nella pratica virtuosa la strada per far fronte alla dilagante mentalità edonistica e utilitaristica che finisce per sacrificare la sua libertà, per mortificare le sue reali potenzialità.
Allora, recuperando una lettura delle virtù nella loro valenza umanizzante e santificante, si manifesta la bellezza del cammino cristiano, che altro non è se non una lunga, paziente scuola per imparare il dono di sé: l’esperienza dell’incontro con Gesù Cristo ridesta necessariamente il desiderio e il senso della vita buona, virtuosa, che si articola e si dispiega nel quotidiano.
Vale ancora oggi, pertanto, quello che san Paolo chiedeva ai fratelli della comunità di Filippi, a conclusione di una Lettera che ruota tutta intorno all’esempio di Gesù, il quale, per amore, spogliò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce: «Quindi, fratelli, tutte le cose vere, tutte le cose onorevoli, tutte le cose giuste, tutte le cose pure, tutte le cose amabili, tutte le cose di buona fama, quelle in cui è qualche virtù e qualche lode, siano oggetto dei vostri pensieri ( ) e il Dio della pace sarà con voi».
La virtù è attuale? Molto di più, è vitale!
Negli ultimi tre decenni del novecento, soprattutto nell’ambito della filosofia anglosassone, si è svolto un vivace dibattito sull’opportunità di ricuperare la prospettiva dell’etica delle virtù, tipica del pensiero antico e medievale, come alternativa o complementare alla moderna morale del dovere, qual è ad esempio quella kantiana, della quale venivano sempre più spesso messi in luce i limiti.
La morale delle virtù, è stato osservato, può definirsi etica della prima persona, perché privilegia il punto di vista del soggetto che agisce. La morale del dovere è detta, invece, etica della terza persona perché privilegia il punto di vista dell’osservatore, del legislatore e del giudice.
Una maniera per comprendere la differenza tra le due ce la può fornire quella che chiameremo la metafora del navigatore satellitare.
Presupposta una meta, nella guida con il navigatore satellitare è sufficiente affidarsi a indicazioni che giungono dall’esterno (l’osservazione del satellite che interagisce con un itinerario digitalizzato) senza riflettere sulla direzione che si sta percorrendo. Normalmente invece il conducente non si affida a indicazioni esterne, ma deve interpretare con la propria intelligenza quale sia il tragitto più adeguato per raggiungere la propria meta. Seguirà le indicazioni della mappa stradale tenendo conto dei segnali eventualmente disponibili lungo il percorso, oppure potrà affidarsi alla memoria, se ha già fatto quella strada, e magari chiedere anche informazioni lungo la via in caso di dubbio, ricorrendo comunque sempre al proprio buon senso.
Apparentemente la guida con navigatore può sembrare migliore e più veloce, ma non a tutti i percorsi digitalizzati corrispondono percorsi reali, né sono sempre adatti al tipo di veicolo di cui siamo alla guida. Per giunta il navigatore non è in grado di segnalare, in tempo reale, le interruzioni accidentali, e talora anche pericolose, che potrebbero verificarsi. Non posso dunque obbedire ciecamente alle indicazione del navigatore, mettendo per così dire il cervello «in stand-by» e rinunciando al buon senso e all’osservazione del percorso che sto effettivamente facendo.
La morale delle virtù, o della prima persona, è quella che mi rende in grado di orientarmi anche senza navigatore. Fuori di metafora, si preoccupa di formare in me le qualità per condurre autonomamente la mia vita, nel suo percorso reale. Non nega l’utilità di un’etica normativa condivisa, ma la ritiene insufficiente.
La prima virtù da considerare in questa prospettiva è la prudenza o saggezza (denominazione, quest’ultima, preferibile a «prudenza», termine logorato dall’uso e spesso confuso con «cautela») che potremmo definire come la qualità di chi cerca di ottimizzare la propria ragione pratica, ovvero la propria capacità di scegliere bene.
La virtù della saggezza, come la ragione pratica, ha due volti, uno cognitivo e uno direttivo: essa conosce e decide. La virtù della saggezza non è in grado di indicarmi la meta, ma, una volta presupposta, mi guida nel percorso.
Per la sostanza della vita cristiana la percezione della meta presuppone l’esperienza delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità. La meta rimarrebbe, tuttavia, un sogno etereo senza la realizzazione di un relativo percorso.
L’itinerario operativo di chiunque miri al bene richiede innanzitutto un impegno di conoscenza. Non si può fare il bene senza porre attenzione alla realtà, senza onestà intellettuale e la fatica di adeguarsi, per quanto possibile, all’oggettività della situazione che non dipende esclusivamente né dalla propria volontà né dai propri desideri.
La saggezza, come si è detto, ha anche un volto direttivo che presuppone la capacità di vagliare se una determinata azione potrà divenire realmente via alla realizzazione del fine.
Naturalmente, la saggezza morale non potrebbe esistere se non fosse sostenuta dalle virtù propriamente etiche che ruotano intorno alle altre virtù cardinali: giustizia, fortezza e temperanza.
Solitamente virtù della temperanza è legata alla continenza dei desideri e delle passioni che rischiano di travolgere l’esistenza umana come un’automobile in corsa senza freni. Limitare le proprie pretese, mettere un argine a se stessi, disciplinarsi, darsi delle regole, fare delle rinunce sono i modi tradizionali per esprimere in quali atteggiamenti si traduce questa virtù: è, per molti versi, limitare la parte peggiore di noi stessi per favorire e far emergere la parte migliore.
Questa visione di rigore interiore e ascetica oggi ci comunica irritazione, fastidio, quasi che la vita umana fosse una lotta in cui negare e reprimere ciò che sembra prometterci gioia, soddisfazione, piacere, felicità. Torna in mente il noto aforisma di Oscar Wilde: «perché le cose buone della vita o sono immorali, illegali o fanno ingrassare?». In questa prospettiva la temperanza non può apparirci una virtù simpatica e quindi da rifiutare in nome della gioiosità della vita oppure da rendere innocua limitandola alla pratica delle piccole rinunce e solo in alcuni momenti particolari dell’anno: i «fioretti» quaresimali.
Non c’è un altro modo di comprendere e vivere la temperanza? Intanto dobbiamo renderci conto che questa virtù, considerata già dal filosofo greco Platone «cardinale», può e deve essere riletta alla luce della fede, anzi, per esser più precisi, va riconsiderata entro la dimensione teologale della speranza. Ciò significa che è possibile e, direi, necessario cogliere la positività umana che si annuncia anche attraverso le espressioni negative che si utilizzano per esprimere la temperanza. San Paolo nella Lettera ai Romani dice che la legge mette in luce il peccato perché comanda «non desiderare» (cf. Rm 7,7) ma trova la sua pienezza nel precetto dell’amore del prossimo (cf. Rm 13,9).
Così il senso della temperanza non è di rinunciare a ciò che nel mondo è buono imponendosi sofferenze, ma di renderci capaci di cogliere quale sia la verità nascosta, confusamente annunciata e promessa dai desideri. Solo che per far emergere questa verità c’è bisogno di contenere il desiderio stesso, di orientarlo verso azioni coscientemente pensate e volute e non impulsive o falsamente spontanee: come l’acqua di un torrente in piena per diventare fonte di vita – cioè per realizzare ciò che di suo l’acqua è – ha bisogno di trovare dighe e sbarramenti che la facciano scorrere più lentamente e l’aiutino a decantarsi e a divenire limpida e potabile.
Allora, per esempio, la temperanza nei confronti del cibo diviene più che la necessità – pur doverosa – di sottoporsi a un regime alimentare sano, o recuperare un buon rapporto con se stessi, o utilizzare saggiamente le risorse della terra per farne dono a chi ha meno di noi. Diviene la capacità di cogliere attraverso l’esperienza del cibarci quali siano le nostre vere e più profonde necessità: di quali «cibi» si nutre la mia vita e la mia fede? cosa alimenta e sostiene realmente la mia umanità, la mia capacità di amicizia, di compassione, di dono, di amore? cosa impedisce alla mia vita di disperdersi in tante attività da cui non emerge mai una speranza precisa? In fondo nella temperanza vissuta in questa prospettiva trovano eco esistenziale quelle parole con cui vengono proclamati beati coloro che si scoprono affamati e assetati di giustizia; come pure inizia a emergere più concretamente il valore di quel «non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio»: esperienza fondamentale di Israele nel deserto (cf. Dt 8,3), esperienza ripresa e attualizzata da Gesù (cf. Mt 4,1-4).
La parola «giustizia», oggi, come sempre, viene usata con significati assai diversi col rischio di non far capire che cosa, in effetti, sia. Niccolò Tommaseo nel suo celebre Dizionario de’ sinonimi della lingua italiana, edito per la prima volta a Firenze nel 1830, scriveva che il senso primario e fondamentale di «giustizia» è quello di «virtù morale, la quale vuole che rendasi a ciascuno il suo, rispettinsi gli altrui diritti», poi rammentava che «giustizia si chiamano i tribunali e i ministri che rendono o render dovrebbero giustizia» e aggiungeva con una certa ironia: «giustizia è chiamato anco il boja; io non so, se egli così chiami sé, perché non l’ho sentito mai ragionare di queste cose». Tommaseo precisava, inoltre, che «Nelle scritture sante, giustizia significa l’adempimento perfetto dei doveri religiosi: camminate nelle vie di giustizia; fate opere di giustizia» e concludeva che «giustizia chiamasi anche la pena inflitta dalla legge, ma sovente la capitale, e l’atto di essa e il luogo e gli esecutori».
Le delucidazioni di Tommaseo sono molte importanti e mi è sembrato utile ricordarle per evitare confusioni ed equivoci. E veniamo a dire qualcosa sulla virtù della giustizia. Sarà Ulpiano, giurista romano del III secolo d.C., che, sulla base dell’antica tradizione filosofica, ne dà la famosa definizione: «Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi» («Giustizia è la costante e perpetua volontà di dare a ognuno quello che è suo diritto»). San Tommaso d’Aquino accoglie pienamente tale definizione e spiega che questa virtù ordina l’uomo all’altro e fa si che debba rispettare sempre tale alterità perché ogni uomo è un altro, una persona. L’altro abbraccia anche la comunità. Quindi l’indicazione «dare a ciascuno il suo» contempla sia il dovere del singolo a contribuire al bene comune, sia il dovere della comunità di dare il suo ai singoli cittadini.
Come Aristotele anche San Tommaso distingue tre forme principali di giustizia: commutativa, legale e distributiva. La prima riguarda i doveri tra persone private; la seconda quelli degli individui verso la comunità; la terza quelli della comunità verso i singoli. Di queste tre forme quella più eminente, per San Tommaso, non è né quella commutativa né quella distributiva, bensì quella legale, poiché il bene comune è superiore al bene singolare d’una sola persona e cita Aristotele quando dice che «la più bella delle virtù par che sia la giustizia; né la stella del mattino né quella della sera sono così mirabili».
San Tommaso afferma, poi, che fra le virtù morali soltanto la giustizia si può propriamente attribuire a Dio. Una riflessione speciale da farsi è quella sui nostri rapporti con Dio; per l’Aquinate non è possibile realizzare quell’uguaglianza richiesta dal concetto di giustizia, perché Dio non è debitore di alcuno, l’unico debitore è l’uomo che cerca di fare tutto quello che è in suo potere, anche se ciò non potrà essere sufficiente, potrà esserlo nel senso che Colui al quale dobbiamo il nostro debito, cioè Dio, voglia farlo essere. San Tommaso conclude osservando che le nostre virtù paragonate a quelle divine sono come la luce della candela paragonata alla luce del sole.
di Carlo Nardi
A questo proposito, chi è l’uomo nelle concezioni degli antichi? Platone nel Fedro introduceva l’immagine di una biga per delineare le facoltà e le pulsioni dell’anima. Per lui, l’anima umana è simile ad una biga trainata da due cavalli, diretti da un auriga. Il cocchiere è simbolo del raziocinio che guida, o dovrebbe guidare, mediante la virtù della temperanza il cavallo nero, emblema della forza del desiderio con le relative «appetizioni». Il raziocinio deve dirigere anche il cavallo bianco, ossia l’irascibilità, che è mondo psicologico della «repulsione»: nel campo del rifiuto e dello sdegno interviene la virtù della fortezza, detta cardinale insieme alle altre tre (saggezza, giustizia temperanza), perché cardine ineliminabile di una vita onesta. Lo schema, ovviamente rielaborato, è presente in molti sviluppi della riflessione morale di pagani e cristiani nell’antichità.
La fortezza (kartería) si configura pertanto come pazienza o meglio come «forza di sopportazione» (hypomoné), ed è anche coraggio (andreía), magnanimità (makrothymíia o megalopsychía) e magnificenza (megaloprépeia), come effetto di un cuore grande che sa guardare oltre ogni meschinità. La fortezza è un sapere affrontare la vita con le sue bastionate e le sue sfide.
Una vasta letteratura di consolazione e incoraggiamento preparava ed educava alla virtù. Per accompagnare l’arduo cammino della fortezza, i cristiani antichi non esitano ad assumere moduli e talvolta esempi pagani (Clemente di Alessandria, Basilio, il giovane Crisostomo). Attingendo speciamente a Cicerone, Seneca e Plutarco i Padri della Chiesa lasciano preziosi interventi sulla «pazienza», ben inteso come forza di sopportazione. Penso a Tertulliano che proprio nel Trattato sulla pazienza ammette onestamente la sua fragilità di irascibile, a s. Cipriano, a s. Agostino con opere dallo stesso titolo, i quali elaborano argomentazioni, espressioni retoriche, modelli morali, attingendo specialmente alle sacre Scritture. Com’è da immaginare, si visita e rivisita Giobbe, anche con la deriva devota che ha portato al modo di dire la «pazienza di Giobbe», ben poco conforme al testo poetico ebraico.
Giobbe però non è un esemplare autonomo. Riceve la sua luce dall’Uomo dei dolori (cf. Is 53,3), Gesù, il Testimone fedele (Ap 1,5), che dà al cristiano la forza di essere a sua volta testimone fedele. Gesù sostiene il discepolo nella sua «milizia» pacificante (almeno nei primi secoli: cf. Erasmo da Rotterdam), ossia nel combattimento spirituale (Ef 6) contro il peccato e quel che inclina al peccato: la carne con le sue concupiscenze, lo spirito del mondo, il demonio (Leone I, Omelie sulla quaresima). Lo stesso Signore lo incoraggia nella testimonianza alla retta fede, all’ortodossia, e alla giustizia evangelica, ortoprassi, particolarmente rilevante nella predicazione, pastorale e vicenda di Giovanni Crisostomo.
A questo proposito mi pare opportuno citare qualcosa dalle finissime Osservazioni sulla morale cattolica di Alessandro Manzoni sull’adulazione che è tutto il contario della fortezza e una vera pazienza: «purtroppo vogliamo il coraggio soltanto quando è necessario per secondare un’impresa, per tentare un vantaggio, ma soffrir da soli, soffrire tranquillamente, e col solo conforto di soffrire per la giustizia, e senza applauso, ci sembra quasi una virtù chimerica, tanto siamo affezionati alla terra! ( ) la Religione ( ) vuole il coraggio il più raro, il più tranquillo ( ), la servilità è tutta quella prudenza umana che la Religione esclude da tutte le cose dove il dovere è chiaro. L’adulazione è, secondo la Legge di Dio, un peccato (se non altro come menzogna), e chi non sa quanti sofismi ha inventato il mondo per giustificarla?». E ancora: «la pazienza ( ), educando l’animo a superare i mali, lo rende più forte ad affrontarli quando sia necessario per la giustizia; mentre l’insofferenza che trasporta l’uomo alla violenza lo fa poi condiscendente quando vi sia un mezzo di sfuggire i mali, sacrificando il dovere» (Osservazioni Seconda parte, cap. 3).
A proposito di pazienza e coraggio vissute in Cristo, le voci dei martiri africani di Scillio verso il 180 e di una giovane madre Perpetua nel 202 a Cartagine sono lontane da noi nel tempo, ma vicine per le invisibili vie della grazia, tanto più che, affidate alla scrittura, ci raggiungono nella loro semplicità e schiettezza. In loro la virtù umana della fortezza è corroborata, assunta e portata alla perfezione dalla fortezza, dono divino dello Spirito Santo, effuso nel battesimo e rafforzato nella cresima per la testimonianza a Cristo, unico Signore.
Nella tradizione teologica il termine fede è stato usato per significare sia il mistero di Dio che si rivela in Gesù Cristo, sia l’atteggiamento di coloro che acconsentono e credono alla rivelazione. La teologia ha parlato di fides quae (fede che crediamo) e di fides qua (fede per cui si crede) distinguendo tra il contenuto della fede e l’atto di credere. Vi è infatti la fede creduta con i suoi contenuti: le cose che noi dobbiamo credere e che sono quelle e non altre. Ma accanto ai contenuti di fede sta l’atto di credere, che rimanda alla persona che crede. C’è dunque una verità che deve essere creduta, e un soggetto che è chiamato a credere e ad accogliere a questa verità. Si tratta di due aspetti distinti, ma non separabili e non confondibili, della vita di fede.
La vita cristiana ha bisogno di ambedue: non ci sarebbe fede se non vi fosse verità, la verità della fede da proteggere, da annunciare, da sostenere, da proclamare; e non ci sarebbe la fede se non vi fossero le persone che accolgono questa verità e che fanno di questa verità il senso della loro vita.
In realtà credere alla rivelazione che ci è stata donata in Cristo significa essenzialmente e primariamente credere in lui, nella sua persona che è via, verità e vita. E, per lui, con lui e in lui, credere nel Padre e nello Spirito santo.
Il cristiano nella fede è reso partecipe della coscienza stessa di Cristo. In un certo modo colui che ha veramente fede conosce Dio come lo ha conosciuto Gesù. Lo conosce da figlio e, in virtù dello Spirito ricevuto in dono, può pregare nella preghiera del Figlio, entrando così nel mistero della vita trinitaria. La fede è la percezione consapevole di essere figli di Dio, dalla quale il cristiano deriva la capacità di vivere nella tranquillità e nella sicurezza profonda di chi è certo di essere amato dal Padre.
Chi sperimenta la salvezza di Dio non è più in balia della febbre del successo. Non è in cerca dell’insuccesso, ma neppure lo teme perché ha come esempio il Signore Gesù che ha concluso la sua vita terrena sulla croce. Il cristiano non ha bisogno di sentirsi giustificato per quello che sta cercando e sta facendo, né desidera ottenere il successo a tutti i costi. Per il credente anche la sofferenza diventa una possibilità umana positiva che può essere abbracciata attraverso la fede.
Grazie alla luce della fede, che illumina la realtà e sostiene la ragione, il credente possiede una comprensione più ampia della realtà e quindi della propria possibilità di agire. Il suo impegno è redento e, per questo, è libero.
Alla luce della fede nel mistero pasquale, la morte, a cui nessuno può sfuggire, non è più la catastrofe definitiva. La comprensione della realtà che scaturisce dalla salvezza ricevuta in dono comunica la serenità profonda che rende il credente capace d’impegnarsi interamente nelle decisioni, soprattutto in quelle particolare scelte che egli vuole irrevocabili. Confidando fermamente nella realizzazione escatologica, il cristiano è capace di rinunciare a se stesso, trovando la sua vera interezza proprio nel momento in cui sente che una parte di sé muore.
In forza della vera umanità del Signore Gesù Cristo, la misericordia di Dio diventa, per chi ne ha fatta esperienza, la componente decisiva di ogni scelta morale. Il credente è capace di decidere e di decidersi: può rischiare perché è già in partenza riconciliato con se stesso. Già all’inizio del suo intraprendere una decisione, sa di essere abbracciato e condotto dalla misericordia di Dio. Riconciliato con se stesso, può vivere nella e della misericordia: può donarla agli altri perché ne ha fatto esperienza.
Questa serena fiducia scaturisce, in definitiva, dalla preghiera. La preghiera sta alla base della decisione morale del credente e ne è la forma più originaria. In fin dei conti, ogni scelta per il cristiano non è altro che la risposta a una chiamata, a una vocazione.
La virtù teologale della speranza si appoggia su una struttura fondamentale dell’esistenza di ogni essere umano: la vita è apertura alle possibilità che il futuro ci riserva e le nostre azioni sono tali perché nascono e si nutrono del fine che intendiamo raggiungere. Ma la speranza colta nel suo lato umano vive continuamente di una tensione con la «durezza» del presente, con ciò che appare solida e indiscutibile realtà.
È proprio in questo confronto e nel mantenersi in esso che se ne misura la validità e la forza: di fronte a ciò che manifestiamo di quello che siamo e a ciò che dovremmo manifestare vi sono quattro passaggi fondamentali per non rimanere nell’inerzia: prendere coscienza dei nostri errori o, più semplicemente, dei nostri limiti; individuarne le radici e le cause; cogliere che esiste una possibilità di soluzione positiva; procedere attraverso piccoli, ma continui, passi verso di essa.
La speranza si mostra nel terzo passaggio come la capacità di cogliere che esistono possibilità diverse – almeno una, positiva – raggiungibili effettivamente. Nello stesso tempo questa intuizione si misura col presente, con la capacità di prendere coscienza della propria situazione e con la concretezza di individuare e perseguire fedelmente quei piccoli cambiamenti senza i quali l’apertura della speranza sarebbe solo sogno ad occhi aperti. La forza della speranza è anche la sua debolezza: ciò che ci fa vedere la realtà che viviamo come aperta a possibilità positive di trasformazione, ciò che ci fa cogliere nella situazione presente i lati positivi da utilizzare come fulcro per il cambiamento, rischia continuamente di proiettarci alla ricerca di una perfezione ulteriore – un «meglio» – facendoci perdere di vista quel bene che possiamo e dobbiamo realizzare adesso. È la tentazione insita nell’utopia.
Come questa struttura umana viene assunta e trasformata dalla virtù teologale della Speranza? Sostanzialmente svegliando, guarendo, sostenendo e indirizzando la nostra attitudine e apertura verso il futuro. La Speranza teologale risveglia la tensione operativa verso il Regno, verso l’affermarsi della giustizia e della pace che ne sono segno anche se, nella storia umana, realizzazione provvisoria e parziale.
La Speranza teologale guarisce il nostro agire sia dal fatalismo che ci chiude nello status quo, sia dal perfezionismo esasperato che svaluta il realizzabile in nome di un ideale assoluto. Così riconosciamo la Speranza proprio da quella capacità che possiamo chiamare «realismo critico»: operare tutto ciò che ci è possibile coscienti che qualsiasi realizzazione non esaurisce né porta a compimento il Regno pur avvicinandoci ad esso.
La Speranza teologale sostiene e incoraggia i nostri sforzi perché rende presente e attiva in noi la passione, morte e risurrezione di Cristo e ci consente, così, di affrontare anche le situazioni negative e tragiche attraverso la consegna di noi e della nostra opera alla volontà del Padre certi che come ha trasformato la croce in offerta di salvezza per tutti gli uomini, così saprà utilizzare il nostro essere, il nostro operare e il nostro patire per il bene.
La Speranza teologale, infine, indirizza e chiarifica la nostra visione del mondo e il nostro sentire, aiutandoci a evidenziare nelle situazioni e nelle persone gli aspetti positivi, le potenzialità di bene, i lati inediti e inaspettati attraverso cui passa l’agire di Dio. È quell’ottimismo sereno che sa cogliere nel piccolo seme che viene piantato la bellezza e grandezza del fiore o dell’albero che può divenire, senza nascondersi i rischi e i limiti a cui può andare incontro, anzi usando questa coscienza per prendersene cura nel modo più attento e amorevole possibile.
di Gianni Cioli
Il credente non obbedisce a una legge opprimente e impersonale; si ricorda invece di una capacità che gli è stata donata. La misura del suo agire cresce con l’intensità con cui è catturato dall’amore» (K. Demmer, Salvezza, in B. Stoeckle (ed.), Dizionario di etica cristiana, Assisi 1978, 366).
È proprio in questa esperienza di essere catturati dall’amore che sta il fondamento della vita cristiana e quindi della morale del credente. Vivere con un senso, identificarsi sempre più profondamente con quello che si fa, superare gli ostacoli, le sconfitte, le frustrazioni e le delusioni è possibile per chi ama sentendosi amato. L’inevitabile sofferenza che comporta l’agire responsabilmente in un mondo segnato dal peccato è compensata solo dall’amore. Anzi l’amore è la logica della croce che spinge a prendere su di sé i pesi e i dolori altrui. Tutta la vita cristiana si fonda nel mistero della Pasqua: il mistero dell’amore crocifisso che sconfigge la propria antitesi, cioè il peccato, e quindi la morte.
La scelta di vita del cristiano, sia nel matrimonio che nella vita consacrata, nel sacramento dell’ordine, o in qualsiasi altra forma è legata all’esperienza dell’essere stati affascinati, è legata, potremmo dire, a un innamoramento, che deve poi maturare e consolidarsi nella fedeltà. La scelta di vita è il filo d’oro che lega tutte le altre scelte e da loro significato. La scelta di vita potremmo dire è il centro dell’integrazione personale, ma tale scelta per il cristiano è necessariamente legata all’amore teologale di Dio e degli altri, l’amore che il cristiano ha ricevuto in dono e che lo spinge a farsi dono a sua volta.
L’amore solamente umano, come del resto la speranza umana, è soltanto una passione, ma l’amore teologale è una virtù, anzi la più nobile delle virtù come afferma san Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae II, II q. 23, a. 6): la virtù della carità.
La virtù teologale della carità è in primo luogo l’amore di Dio, manifestatosi nella morte e risurrezione di Gesù e comunicato ai credenti col dono dello Spirito. Tale amore, ricevuto in «regalo», diventa, nel cristiano, la logica determinante e la forza trainante della vita concreta, il paradigma della verità delle relazioni personali.
La carità come ricorda san Tommaso è amicizia (Summa Theologiae II-II q. 23, a. 1) cioè amore reciproco. Essere cristiani significa essere amici di Dio. Accogliere e vivere il dono della carità vuol dire dunque, in primo luogo, sentirsi amati corrispondendo: lasciarsi amare da Dio e riamarlo col suo stesso amore con tutto il cuore, tutta la mente, tutte la forza (cf. Mc 12,28-31). Contestualmente vuol dire amare il nostro prossimo come noi stessi. Come ci ha insegnato Gesù (Mt 5,44) e come ha spiegato con acutezza ancora san Tommaso questa amicizia, che è la carità, raggiunge paradossalmente anche i nemici; perché, se si è veramente suoi amici, si vorrà bene a tutti quelli che stanno cuore al Signore anche a quelli che ci odiassero (cf. Summa Theologiae II-II q. 23, a. 1, ad 2). Può sembrare un’esigenza difficile se non impossibile, ma ad una più profonda riflessione tutto ciò risulta la via della gioia più autentica e piena: quella della radicalità del vangelo di Gesù.
Mi sembra appropriato concludere con le parole della colletta della liturgia di questa quinta domenica di quaresima: «Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi».