Dossier

Quando l’informazione diventa un’arma

di Andrea FagioliIl loro caso ha svelato l’inganno, o meglio: uno dei tanti inganni della guerra. A chi pensava che dopo una settimana di bombardamenti almeno la città di Bassora, nel sud dell’Iraq, fosse saldamente nelle mani delle truppe angloamericane s’è dovuto ricredere. Loro, un gruppo di giornalisti italiani, il 28 marzo scorso, nono giorno di guerra, hanno attraversato la città senza incontrare l’ombra di un soldato inglese. Erano «sotto scorta», «ospiti vigilati» degli iracheni, praticamente in arresto. «Ma già in precedenza, la prima volta che siamo arrivati alle porte di Bassora – racconta Lorenzo Bianchi –, la punta massima di avanzata degli inglesi era al ponte sul canale Bassora e non stavano assolutamente entrando in città. Eppure qualcuno, amplificando le informazioni del comando angloamericano, aveva parlato e scritto di soldati inglesi nel centro di Bassora». Lorenzo Bianchi è stato l’inviato della Nazione, del Resto del Carlino e del Giorno in entrambe le guerre del Golfo (1991 e 2003) e in entrambe è stato fatto prigioniero dagli iracheni perché, sia pure «recidivo», ha tentato anche la seconda volta di raccontare la guerra non da incorporato (embedded), ovvero da chi segue il conflitto nelle postazioni ufficiali con le unità militari, bensì da unembedded, libero, senza visti, ma anche senza protezione. Con Lorenzo Bianchi tentiamo di capire cosa producono sui lettori o sugli ascoltatori le notizie dal fronte.Allora, Bianchi, nel caso della crisi irachena, l’informazione sulla guerra è stata buona oppure è stata carente e parziale come lascia pensare la vicenda di Bassora?«C’è stato soprattutto un grande battage sulle armi chimiche di distruzione di massa sul quale hanno giocato molto le informazioni delle intelligence inglese e americana che poi sono state sfruttate ed anche distorte, più che dagli alti gradi militari, dai vertici politici per creare un certo tipo di atteggiamento e di attesa nei confronti del regime di Saddam Hussein. In questo senso si potrebbe fare un parallelo puntuale con il ’91 quando l’esercito iracheno veniva descritto come la quarta forza armata del mondo. Era un’evidente forzatura perché quell’esercito, che poteva essere un buon esercito, non era certo la quarta forza armata del mondo, tanto è vero che quando si è scontrato in battaglia con un esercito vero come quello americano non c’è stata storia. Basti il fatto che i carri armati iracheni avevano un tiro utile di oltre un chilometro inferiore a quello dei carri americani».

Questo tipo di informazione non produce dunque contrarietà alla guerra?

«Creando la paura sull’uso delle armi chimiche oppure dei legami tra il regime di Saddam Hussein e Al Qaeda, si spinge all’accettazione del conflitto. Negli Stati Uniti, infatti, c’è stato un bombardamento sistematico sull’opinione pubblica, tanto che la maggioranza ha sempre appoggiato l’azione militare, anche se poi alla fine della guerra la percentuale era in calo. In questo modo è stato facilitato anche l’atteggiamento abbastanza controverso dell’opposizione democratica che alla fine non si è opposta al conflitto».

Più in generale, parlare di guerra aiuta o no a ripudiarla?

«Il problema è di come le guerre si raccontano. In genere nelle redazioni c’è una tendenza a depurare la guerra dalle sue immagini e dai suoi effetti peggiori. Normalmente si tenta di far vedere il meno possibile gli orrori della guerra. Nella scelta delle fotografie, nella scelta delle immagini televisive viene fatta un’operazione di sterilizzazione della realtà. Ad esempio, quand’eravamo prigionieri a Bassora, un reporter del quotidiano locale ci ha portato delle immagini terribili di vittime civili dei bombardamenti. Io penso che se qualcuna di queste immagini finisse sui giornali o in televisione potrebbe produrre un effetto diverso sulla considerazione degli effetti della guerra. Noi inviati, in questo momento, siamo oggetto di un tentativo di manipolazione per condizionare l’opinione pubblica, ma anche strategicamente per demoralizzare l’avversario. Pensiamo ad esempio a chi deve difendere Baghdad e viene a sapere (per una voce messa in giro ad arte) che a Bassora addirittura la cinquantunesima divisione della Guardia repubblicana schierata a difesa della città sta trattando la resa. È sicuramente un brutto colpo per il morale di chi difende Baghdad. Per questo l’informazione è diventata un’arma strategica al pari degli strumenti militari».