Dossier
Quando l’informazione diventa un’arma
Questo tipo di informazione non produce dunque contrarietà alla guerra?
«Creando la paura sull’uso delle armi chimiche oppure dei legami tra il regime di Saddam Hussein e Al Qaeda, si spinge all’accettazione del conflitto. Negli Stati Uniti, infatti, c’è stato un bombardamento sistematico sull’opinione pubblica, tanto che la maggioranza ha sempre appoggiato l’azione militare, anche se poi alla fine della guerra la percentuale era in calo. In questo modo è stato facilitato anche l’atteggiamento abbastanza controverso dell’opposizione democratica che alla fine non si è opposta al conflitto».
Più in generale, parlare di guerra aiuta o no a ripudiarla?
«Il problema è di come le guerre si raccontano. In genere nelle redazioni c’è una tendenza a depurare la guerra dalle sue immagini e dai suoi effetti peggiori. Normalmente si tenta di far vedere il meno possibile gli orrori della guerra. Nella scelta delle fotografie, nella scelta delle immagini televisive viene fatta un’operazione di sterilizzazione della realtà. Ad esempio, quand’eravamo prigionieri a Bassora, un reporter del quotidiano locale ci ha portato delle immagini terribili di vittime civili dei bombardamenti. Io penso che se qualcuna di queste immagini finisse sui giornali o in televisione potrebbe produrre un effetto diverso sulla considerazione degli effetti della guerra. Noi inviati, in questo momento, siamo oggetto di un tentativo di manipolazione per condizionare l’opinione pubblica, ma anche strategicamente per demoralizzare l’avversario. Pensiamo ad esempio a chi deve difendere Baghdad e viene a sapere (per una voce messa in giro ad arte) che a Bassora addirittura la cinquantunesima divisione della Guardia repubblicana schierata a difesa della città sta trattando la resa. È sicuramente un brutto colpo per il morale di chi difende Baghdad. Per questo l’informazione è diventata un’arma strategica al pari degli strumenti militari».