Cultura & Società
Quando l’abito fa il monaco
di Sara Piccolo Paci
Negli ultimi decenni si è assistito ad una proliferazione degli studi storici tra i quali, ed a buon titolo, si può inserire anche la storia delle vesti: un vero e proprio campo di studi ricco di potenzialità interdisciplinari e appartenente al più vasto campo dell’indagine culturale, che, contrariamente a quello che si è pensato per lungo tempo, non può essere solo il frivolo passatempo di chi generalmente fa altre cose nella vita. Ciò non toglie che parlare di abbigliamento ha sempre un fascino tutto particolare, che si riconduce, probabilmente, al fatto che l’operazione del vestirsi non è estranea a nessuno di noi e che ognuno è bene o male consapevole del fatto che l’abito «parla» e parla proprio di noi. In un momento difficile quale è quello attuale, nel quale la società si trova sottoposta a continue tensioni, difficoltà, lacerazioni intime e profonde, e nel quale l’apparenza pare essere molto più importante della sostanza, la riflessione sulla storia e funzione delle vesti liturgiche nel mondo cristiano è un approccio inconsueto, e forse appare di importanza minore rispetto ad altri temi, che consente però di comprendere e riflettere sul rapporto tra dignità del corpo e apparenza, tra funzione e simbolo, tra espressione di spiritualità o di potere.
Anche i comportamenti ed i valori religiosi sono, infatti, condizionati nel loro sviluppo dalla società nella quale compaiono e sono elaborati. Vesti e tessuti svolgono, ed ancor più hanno svolto in passato, un ruolo centrale nelle cerimonie di tutte le culture ed è un percorso particolarmente affascinante cercare di comprenderne le forme ed i significati, proprio perché attraverso questa indagine si giunge velocemente al nocciolo di molte questioni fondamentali. Se, infatti, il corpo è probabilmente lo strumento più raffinato che ognuno di noi ha a disposizione per esprimere se stesso e per comunicare con gli altri, le vesti, le acconciature, gli ornamenti, gli accessori, perfino i profumi ed i tatuaggi sono forme complesse di comunicazione che noi utilizziamo in modo consapevole ed inconsapevole.
Fin dagli inizi, il cristianesimo si è fatto erede di alcuni dei sistemi di rappresentazione e comunicazione preesistenti (dal mondo ebraico, e di riflesso da quello egizio e sumero, come da quello romano e, in generale, da quello mediterraneo), soprattutto per quel che riguarda i segni dell’autorità e del potere, che possono essere espressi attraverso l’interazione tra forma, immagine e funzione anche di oggetti e vesti. Oggi siamo convinti di vivere nella società delle immagini per eccellenza, ma forse non è proprio del tutto vero, perché l’immagine necessita sempre di essere compresa e rielaborata per essere utile, e non sempre noi ci diamo il tempo di fare questa operazione. Una vera sovrabbondanza di figure, colori e forme occhieggia ad ogni angolo di strada, fuoriesce dai nostri televisori, ci aggredisce dalle pagine dei giornali, riempie la nostra cassetta della posta con messaggi spesso ingannevoli, solitamente non richiesti. In qualsiasi momento siamo possibili vittime o protagonisti di questo aggressivo ed onnipresente sistema di immagini: intrappolati nelle candid camera di qualche programma televisivo burlone, schedati nelle immagini di sicurezza dei negozi, delle strade, catturati dalle immagini sfocate dei telefonini, «sparati» on line. Sembra che oggi solo chi è «visibile» in televisione abbia la possibilità di «essere» qualcuno ma il giorno dopo il suo volto è sostituito da quello di un altro e non c’è più traccia del suo passaggio, il suo ricordo non ci suscita più alcuna emozione, anzi, sembra che non ci sia più neppure il ricordo, rimosso con l’immagine fuggevole.
Le immagini devono legarsi a ricordi ed emozioni, devono conservare un significato per colpire la nostra coscienza, e se le immagini sono troppe come è possibile che il loro impatto su di noi sia sempre lo stesso? La percezione e la funzione delle immagini è un problema che la Chiesa ha affrontato fin dalle sue origini: il rischio di idolatria è sempre stato presente e per idolo non si intende, qui, una semplice immagine artistica, quanto piuttosto l’attribuzione di un significato erroneo a qualcosa o qualcuno. Non è un caso se in questi giorni il pontefice richiama i cristiani a fare attenzione all’idolatria: «L’idolo è un inganno dice Benedetto XVI perché distoglie dalla realtà chi lo serve per confinarlo nel regno dell’apparenza». In un mondo come quello odierno, dove le certezze vengono metodicamente a cadere, è comprensibile il desiderio di riappropriarsi e rendere più stabili i simboli propri dell’identità di appartenenza, e le vesti sono tra i simboli più potenti basti pensare al valore che si è attribuito per decenni ad una sciarpa rossa o all’eskimo, ad uno scialle kefiah, all’abbigliamento unisex, alla polemica sul velo-sì-velo-no che infuoca tuttora il mondo occidentale e non solo. Tuttavia ciò comporta anche un rischio che altri prima di noi hanno pagato a caro prezzo. È successo più volte infatti, anche nel corso della storia della Chiesa cristiana, che segni e simboli nati quali espressioni di alti valori morali e di ideali, di realtà spirituali sottili, siano stati in seguito confusi e mal compresi nell’esaltazione di pure e semplici realtà terrene, spiccatamente politici e manipolabili. A ciò papa Paolo VI ebbe a mettere un consapevole freno, quando a più riprese ebbe a riflettere sul valore di alcune delle insegne religiose delle quali, con il passare del tempo, si era giunti ad autorizzare un uso improprio. Oltre alla rinuncia alla tiara, il pontefice ebbe a esprimere più volte il suo interessamento per la questione delle vesti e delle insegne liturgiche, giungendo ad affermare con grande lucidità spirituale e politica, che «dovremo alquanto ridurre le forme esteriori, sia delle vesti che dei titoli, delle quali è oggi rivestito il Cardinalato, erede di costumi d’altri tempi» (1967), fino al motu proprio del 1968 «Pontificalia insignia», nel quale Paolo VI ribadiva la necessità di una semplificazione di segni che altrimenti, nella loro ridondanza e moltiplicazione, correvano il rischio di perdere completamente il senso misterico e liturgico del quale dovevano essere espressione, per restare mera espressione di prestigio personale, o, ancor peggio, vuoti simulacri «del tempo che fu».
Oggi appare sempre più indispensabile una lettura consapevole dei segni che ci circondano: senza rendercene conto noi usufruiamo di un antico mondo di segni e simboli che, spesso, proprio perché ormai non siamo più in grado di «vederlo» correttamente, confondiamo e sovrapponiamo ad altri con noncuranza e senza attenzione, frammentando il messaggio originale in una serie di informazioni senza senso. Decontestualizzare e ri-applicare è stato un metodo utile in un momento nel quale era necessario destrutturare «macchine» di simboli ormai fossilizzate: nel campo della moda tra gli anni ’70 e gli anni ’90, l’abito è stato smontato e ammorbidito la giacca di Armani, l’ironia di Moschino, la destrutturazione di Miyake proprio alla ricerca di un significato maggiormente vitale rispetto al passato, nel quale esso era simbolo di una struttura gerarchica irrigidita ed ormai priva di valori.
Oggi però, anche questo messaggio di positivo reinterrogarsi è stato strumentalizzato al fine di facilitare l’affermazione di poche idee superficiali a discapito di una reale ricerca di significato. Il rischio è presente anche nel mondo ecclesiastico: se è pur vero che in qualche modo la Chiesa, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, ha sentito l’esigenza di riappropriarsi dei significati profondi anche del vestire liturgico, è altresì vero che essa si trova esposta alla stessa confusione che agita il mondo moderno, alle grandi potenzialità ed altrettante pericolosità della globalizzazione, sia da un punto di vista ideologico quanto materiale.
Questo non significa che l’abbigliamento liturgico debba tornare ad essere espressione gerarchica delle istituzioni, quanto piuttosto che si debba riflettere sul suo valore comunicativo oltre che essere consapevoli di ciò che attraverso l’abbigliamento vogliamo davvero comunicare.
Inizialmente, la monaca non si distingueva per vesti o colori particolari, visto che l’abito scuro ed il velo erano indossati generalmente dalle donne anziane: una sorta di messaggio rivolto alla società con il quale la donna, sposata o nubile, dichiarava di non essere più interessata alla vita riproduttiva ma di voler dedicare tempo alla sua vita spirituale. Il proliferare degli ordini religiosi, l’orgoglio di appartenere ad una «casta» superiore, le vocazioni forzate, avevano deviato l’iniziale modestia e consapevolezza spirituale verso l’espressione di forme esagerate, soprattutto nelle acconciature e nei materiali del velo monastico. Oggi si va verso un’uniformazione della veste religiosa monastica, con un abbigliamento semplice, gonna e camicetta, e poche eccezioni, come le vesti delle Missionarie di Madre Teresa di Calcutta o delle religiose di clausura. Un atteggiamento che pone in risalto più le similitudini che le differenze, nell’affermazione di un percorso di vita che vuole essere scelta libera e consapevole, senza bisogno di differenziarsi nelle «apparenze» ma solo nella sostanza.
L’etimologia di mitra dal greco mitra «fascia», «benda», dall’accadico misarru «cintura», «fascia», con tracce anche nell’ebraico nzr e nell’egiziano ntr, con possibile valenza di «copricapo sacro» ci conduce al centro della cultura mediterranea antica. Nelle tre grandi religioni monoteistiche i copricapo sono stati indossati per più ragioni: rappresentano modestia e devozione, sono elementi usati nelle celebrazioni dei riti di passaggio, sono simboli di potere spirituale e politico, sono emblemi di rango. Mitra e tiara assolvono tutte queste funzioni e nel corso dei duemila anni di storia cristiana entrambe hanno conosciuto evoluzioni diverse e profondamente significative. Dall’originaria forma tondeggiante, in voga fino al XII secolo, si è passati poi a forme allungate ed appuntite. La loro simbologia è complessa e può avere riferimenti differenziati: secondo Brunone di Segni (1045-1123), ad esempio, la mitra avvolge di bianco la testa del vescovo custodendone i sensi ed esaltandone la purezza interiore; per Innocenzo III (1160-1216), invece, le due punte rappresentano i due Testamenti, mentre le due bende che ne pendono (le infule) sono «lo spirito e la lettera» della Legge divina, dalla quale neppure il sacerdote e tantomeno il vescovo possono esimersi. La tiara papale o triregnum, invece, avrà un forte significato politico per lungo tempo, fino al 1967, quando Paolo VI decise di rinunciarci per sempre.
L’autrice, fiorentina, docente di Storia del costume e della moda ed Etnografia presso il Polimoda di Firenze e il Fashion institute of technology di New York, divide il volume (realizzato con il patrocinio dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della Cei) in due parti: nella prima offre una breve sintesi dell’evolversi del concetto di corpo nella società occidentale in relazione al problema dell’abbigliamento e, in particolare, del «vestire sacro»; nella seconda presenta la storia e l’evoluzione dei singoli «capi» dell’abbigliamento liturgico cattolico. Il testo è riccamente illustrato con disegni al tratto, opera dell’autrice.