Cultura & Società
Quando la tv parlava toscano
Osvaldo Bracaloni aveva le sembianze di Vianello, ma in realtà era «figlio» di due signori che hanno costituito una delle grandi «ditte» del teatro leggero e del varietà italiano. Giulio Scarnicci e Renzo Tarabusi, fiorentini, fino dai tempi dell’Università avevano fatto coppia fissa e firmato i copioni di celebri riviste e commedie musicali. La televisione aggiunse ulteriori tasselli alla loro fama, soprattutto attraverso «caroselli» di successo, con slogan che hanno fatto epoca. Sono loro quelli dell’«Ullallà è una cuccagna», che faceva rima con Alemagna e sottolineava i meriti di quella industria dolciaria. La serie di scenette che terminavano con quella esclamazione era interpretata dalla brillante e ironica Lia Zoppelli, bravissima attrice, che interpretava il ruolo della nobildonna Filomena, prima fidanzata e poi sposa del maldestro Narciso, cui prestava volto e voce l’altrettanto bravo Enrico Viarisio. Si trattava di piccoli litigi fra innamorati di fine ottocento-primi novecento, tenuti sul registro dell’ironia i due interpreti erano già attempati che si concludevano con l’una che chiedeva scusa e l’altro che replicava: «Ma il dolor non si cancella». Lei insinuante proponeva: «Prenda, su, una caramella» (fra fidanzati ci si dava del «lei» allora). Lui resisteva: «Non la voglio»; e lei mostrandola: «È di Alemagna». «Ullallà è una cuccagna», e tornava il sereno. Naturalmente cambiavano le rime per reclamizzare altri prodotti della stessa casa: lei veniva invitata ad asciugare il lacrimone per mangiare il panettone; lui veniva compensato dell’orribile sospetto col gustarsi un buon sorbetto e così via. Ma lo slogan finale era sempre quello e divenne una sorta di tormentone non solo per i ragazzi di allora.
Sempre Scarnicci e Tarabusi sono i «responsabili» di una sorta di mini-commedia a puntate in lode di un salumificio famoso, Negroni, interpretata da Tognazzi che proprio lì era stato dattilografo. Raccontava l’attore di aver guadagnato per la serie un compenso pari a venti volte quello da impiegato. Non appartiene a loro la popolare filastrocca: «Le stelle sono tante/ milioni di milioni / la stella di Negroni/ vuol dire qualità». A loro invece si deve il più grande successo comico della storia televisiva: «Un, due, tre», con Tognazzi e Vianello. C’era allora una televisione intelligente, che prendeva in giro se stessa. In una riproposta dell’assolutamente serio programma: «La donna che lavora», di Zatterin e Salvi, ecco Vianello mondina (che lavora una settimina), in parrucca bionda, pantaloncini corti e chiari atteggiamenti ispirati alla Mangano di «Riso amaro»; gli faceva eco Tognazzi sotto un lampione, con tanto di boa di struzzo: la mondana, che lavora una settimana. Il grande Ugo, capace di interpretare la mitica Juliette Greco, tutto inguainato di nero, rese celebre il montanaro della Val Clavicola, luogo unico in tutta Italia, perché vi si piantavano pali telegrafici per farne stuzzicadenti; gli stecchini avanzati venivano ripiantati per avere di nuovo pali telegrafici a ciclo continuo. Per il signorile, trasognato Raimondo cavallo di battaglia fu la parodia di Mario Soldati e delle sue inchieste, non ultimo quel «Viaggio lungo la valle del Po alla ricerca dei cibi genuini», conclusosi con un ricovero in ospedale del protagonista. È ancora nella mente di molti spettatori la figura alta e allampanata di Vianello, in impermeabile e occhiali, con in mano la gocciolante «salama da sugo», responsabile dell’intossicazione del giornalista-scrittore.
Come è noto il programma finì per una scenetta che riproponeva l’incresciosa caduta del Presidente della Repubblica, cui era mancata all’improvviso in pubblico la sedia sotto il sedere. Per Scarnicci e Tarabusi la collaborazione con Vianello continuò nel già citato «Il giocondo» e con «Il tappabuchi». Fu, la loro, una comicità garbata, spesso al limite del geniale, con personaggi indimenticabili come Gregorio il gregario. Nessuno si salvò dalla loro penna, nemmeno Bartali, visto alle prese con il commissario tecnico Pavesi. Costui, nella foga di domandargli: «Sei in forma, Gino?» finiva quasi per affermare «Sei un formaggino», al che l’irato campione replicava «E te tu sei un provolone».
Non solo loro. Di Certaldo era Ernesto Calindri, splendido attore teatrale e protagonista della prosa e del varietà televisivo, capace di passare con disinvoltura dal brillante, al comico, al drammatico. Basti citare la sua partecipazione a Paura per Janet (1963), La fine dell’avventura (di Graham Greene, nel 1969), Villa Arzilla (1990) e la conduzione del programma del sabato sera Il signore delle ventuno, quando in elegantissimo abito da sera accoglieva ospiti prestigiosi in quello che chiamava il suo locale.
Calindri finì per identificarsi col Cynar: un Carosello storico lo vedeva tranquillamente seduto ad un tavolino in mezzo al traffico, intento a sorseggiare quell’amaro efficace «contro il logorio della vita moderna». Doveva avere una propensione per le bevande salottiere, Calindri, perché lo si ricorda anche, insieme a Franco Volpi, in un altrettanto storico Carosello. Erano l’ufficiale e il gentiluomo che, nella Italia di fine Ottocento-primi Novecento, apparivano preoccupati di tutte le modernità che si venivano affacciando all’epoca nella vita di tutti i giorni. Le passavano in rassegna una ad una, concludendo «Non dura», «Dura minga», «Non può durare». E cantavano anche: «Oggigiorno tutto è una lusinga/ dura minga/ dura no/ Vive solo chi non se la prende/ e cantare sempre può/ Fino dai tempi dei Garibaldini/ China Martini, China Martini/ Non più bevande ma nei bicchierini/ China Martini/ Come ai tempi d’oggidì».
Anche in questo caso il «dura minga» diventò un modo di dire adottato da tutta una generazione.