Italia
Quando la disoccupazione diventa malattia dell’anima
Cinquant’anni fa erano i monaci del Vietnam che si davano fuoco per le vie di Saigon. Si sedevano ad un crocicchio, si rovesciavano addosso una tanica di benzina e poi accendevano il fiammifero. Volevano chiedere in questo modo pace ed un governo diverso. Il pacifista Aldo Capitini scrisse allora che questo tipo di suicidio era l’estremo gesto di protesta del non violento che non vuole uccidere l’altro anche se era pur sempre la soppressione di una vita. A differenza del depresso che cerca di nascondere il suo suicidio nel fondo di un fiume questo gesto plateale vorrebbe essere cioè l’estremo discorso politico di chi altrimenti non può chiamare una folla ad ascoltarlo.
Da allora il darsi fuoco è rimasto una pratica buddista che dal Vietnam poteva arrivare nel Tibet finché la grande crisi economica che stiamo vivendo non l’ha fatta giungere molto più vicino a noi anche se qui non ci si suicida per chiedere pace, libertà o indipendenza, ma il lavoro. Così il diritto all’occupazione sembra diventare ormai una causa così grande per cui si è autorizzati a gettare via una vita come per le grandi cause di una volta.
Nel dicembre di tre anni fa Mohammed Bouazizi, un tunisino che faceva il venditore ambulante, si dette fuoco perché la polizia gli aveva sequestrato la bilancia e la frutta che vendeva e dette inizio alla cosiddetta primavera araba. Nell’agosto dell’anno scorso un disoccupato a Roma si diede fuoco davanti a Montecitorio. Un mese dopo un camionista che aveva perso il lavoro si diede fuoco davanti al Quirinale. Nel gennaio scorso due disoccupati si danno fuoco a Siviglia. In Francia il 13 febbraio un disoccupato si dà fuoco davanti all’ufficio di collocamento di Nantes. Il 4 marzo si brucia a Pau un licenziato da Telecom. Il 6 marzo un nuovo tentativo per fortuna non riuscito ha luogo davanti all’ufficio di collocamento di Bois–Colombes.
La disoccupazione può essere non solo povertà, ma anche malattia. Michel Debout, un professore di medicina francese che nella sua attività professionale si è occupato da sempre delle molestie, delle violenze e dei suicidi per motivi di lavoro, ha scritto che oggi più importante della medicina del lavoro sarebbe una medicina dei senza lavoro, una assistenza che si prendesse cura della depressione psichica del disoccupato, della sua disperazione oltre che della sua indigenza. Già l’aumento del lavoro precario vuol dire aggiungere alle nostre paure tradizionali anche l’angoscia permanente di perdere domani o dopodomani il proprio lavoro. E perdere il lavoro vuol dire sovente perdere non solo lo stipendio, ma anche la stima di sé e una sorta di identità personale tanto importante in un mondo in cui la professione viene subito dopo il nome e il cognome come il terzo nome. Allora subentra il senso di colpa di chi si sente un peso per la famiglia e una sorta di traditore o di disertore verso la moglie e i figli. Allora si perde il senso di proiezione personale che sta nel prodotto del proprio lavoro. E contemporaneamente si perdono i compagni di lavoro e i rapporti interpersonali. Sì è condannati agli arresti domiciliari dentro la propria solitudine nel momento in cui si avrebbe più bisogno di gente accanto. La Pira diceva che una fabbrica è come una cattedrale. Forse esagerava, ma voleva dire che dal lavoro non si ricava solo pane, ma anche una sua forma particolare di spiritualità.
In Italia l’ultimo disoccupato a togliersi la vita è stato un muratore di Castelvetrano. Il nostro paese è purtroppo ormai un paese che ha raggiunto proprio in questi giorni il record mai visto di tre milioni di disoccupati. Ed è anche il paese che fra i paesi europei è quello che è più disarmato nei confronti della povertà e della malattia da disoccupazione.
Abbiamo meno ammortizzatori sociali e meno solidarietà verso chi perde il lavoro di qualsiasi altro paese europeo anche se ogni tanto a qualche italiano viene voglia ancora di vantarsi di vivere nel quinto paese industriale di questa terra. Assistiamo il disoccupato per una manciata di settimane e poi lo consegniamo alla sua disperazione dandogli magari l’indirizzo di una mensa della Caritas. Il nostro sussidio di disoccupazione non dura più di otto mesi contro l’anno della Germania e i più anni addirittura della Francia, della Spagna, della Norvegia, del Portogallo , dell’Olanda. È un sussidio che riguarda solo i lavoratori dipendenti e non anche i lavoratori autonomi come accade invece, ad esempio, non solo in Gran Bretagna e in Svezia, ma perfino in Ungheria, Repubblica Ceca e Romania. È un aiuto riservato solo ai lavoratori già occupati che perdono il lavoro e non invece anche al giovane che cerca il suo primo lavoro, come accade in Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Irlanda spesso a partire dai sedici anni di età.
In questi giorni in cui anche da noi in fatto di programmi di un possibile governo si comincia a parlare di reddito di cittadinanza, di assicurazione contro la disoccupazione, di salario minimo, seppure facendo una gran confusione fra l’uno e l’altro progetto, non sarebbe male che finalmente anche questa nostra repubblica «fondata sul lavoro» si accorgesse che è una repubblica che, come nessun altra in Europa, se ne infischia delle sue fondamenta.