Trentotto anni, marinese, arbitro di calcio e tifosissimo del Pisa, operaio alla Piaggio prima di entrare in seminario ed essere ordinato sacerdote nell’ottobre del 2002, don Claudio Bullo (nella foto) è parroco di Sant’Apollinare, a Barbaricina, e responsabile del Servizio di pastorale giovanile della diocesi. Con lui abbiamo parlato della prossima Giornata Mondiale della Gioventù e, più in generale, della condizione giovanile.La prossima Giornata Mondiale della Gioventù sarà un grande evento, anche da un punto di vista mediatico: giornali e tv ne parleranno per giorni. Avrà qualche ripercussione nella vita quotidiana delle comunità? «Sarà sicuramente un’esperienza unica e memorabile per chi andrà a Sidney. Ma da Pisa, almeno con il servizio diocesano di pastorale giovanile, partiranno solo in cinque: il lungo soggiorno (partecipare alla Gmg impegna almeno due settimane) e i costi hanno scoraggiato molti dei nostri ragazzi. Sarà quindi importante per tutti noi che rimarremo in Italia vivere con fede e accogliere tutto quello che il Papa ci proporrà, e che potrà diventare importante per ogni comunità. Molto dipenderà anche dal modo in cui i ragazzi sono stati preparati alla GMG». . È difficile per le comunità aprirsi e accogliere i giovani?«Le comunità si aprono nella misura in cui i giovani sono incontrabili. Negli ultimi anni il mondo giovanile – come tutti sappiamo – vive difficoltà enormi, che naturalmente si ripercuotono anche sulle nostre parrocchie. Ciò non può essere ascrivibile solo ai giovani, ma anche alla cultura e ai modelli proposti oggi dagli adulti: edonismo, consumismo, agnosticismo. Da una recente inchiesta («Stili della religiosità giovanile in Italia», a cura dell’Istituto Iard) è emerso come solo 3 giovani su dieci ritengono molto importante la dimensione spirituale, altrettanti la ritengono trascurabile. La religione è al terzultimo posto tra le cose importanti della vita, preceduta dallo sport, gli interessi culturali, l’amicizia e la famiglia». In effetti il clima culturale e sociale, in Italia e nel mondo, sembra allontanare da ogni tipo di riflessione, non solo religiosa, ma anche filosofica. Esiste una soluzione, una via d’uscita? «Bisogna far nascere e coltivare nei giovani quelle domande di fondo che tutti dovrebbero porsi: parlare loro del Vangelo, di Gesù, di cose importanti che possano destarli dal torpore. Credo sia importante staccarci, come educatori, dal resto delle proposte e dalla corrente generale. Sicuramente dobbiamo fornire ai giovani strumenti di svago e occasioni di aggregazione, ma il nostro compito principale deve rimanere quello di proporre il Vangelo. Dico sempre agli animatori dei gruppi giovanili: vostro compito non è solo ingraziarvi la simpatia dei ragazzi…» Pochi giovani restano in parrocchia dopo la cresima. Perché questo esodo?«Voglio ancora citare l’inchiesta dell’Istituto Iard. Sette giovani su dieci si dicono credenti, ma solo quindici ogni cento partecipano alla celebrazione eucaristica domenicale. Due milioni e mezzo (il 18%) di giovani sono cattolici occasionali ovvero vanno a messa a Natale e Pasqua. Altri due milioni e mezzo – più femmine che maschi – sono cattolici ritualisti perché vanno a messa ma ritengono irrilevante la fede per la loro vita; poco più di un milione sono i giovani cattolici intimisti che non vanno a messa, ma dicono di pregare molto; infine i giovani cattolici ferventi sarebbero poco meno di un milione. Non bisogna strapparci i capelli, ma i dati sono questi. Un modo per convincere a restare all’interno delle comunità chi ha ricevuto la cresima (e bisogna notare che il loro numero sta diminuendo) è affidare loro un compito, una qualche responsabilità. Non è certo per tenerli legati, ma è un modo per offrire loro un percorso che li faccia sentire partecipi alla vita della comunità.» Quali sono, in diocesi, le esperienze di gruppi giovanili che funzionano?«È più facile trovare gruppi giovanili attivi nelle parrocchie più grandi, più strutturate. Vi sono diversi esempi di esperienze positive anche in parrocchie piccole, sebbene in quei contesti sia più difficile organizzare strutture adeguate, forme di aggregazione e persino trovare animatori. Il discorso è in parte diverso per le associazioni e movimenti, dove forse il senso di appartenenza è sentito con più forza».