Lettere in redazione
Quando il giudice vuol fare le leggi
Diviene sempre più frequente, tanto da farlo passare troppo spesso con ostentata rassegnazione, come un fenomeno di ordinaria amministrazione, la prassi di qualche giudice eccessivamente fantasioso che, anziché applicare, come sarebbe suo dovere, il diritto vigente, e quindi evitare di decidere in assenza di norme che disciplinano una fattispecie concreta, codifica nuovi orientamenti. In me c’è in questo caso un moto di ribellione che origina, non solo dagli studi giuridici che mi hanno abituato a considerare valore aggiunto di una democrazia reale il principio della separazione dei poteri, che impedirebbe al giudice di surrogare il legislatore, ma anche e soprattutto dalla mia condizione di padre adottivo, che non può tacere dinanzi all’obbrobrio morale e giuridico cui ha dato vita il Tribunale dei minori di Roma, che ha accolto un’istanza adottiva nell’ambito di un rapporto omosessuale.
Occorre che si distingua l’inconfutabile diritto degli omosessuali ad essere tutelati «senza se e senza ma» nella loro dignità di essere umani, ma non si può attribuire i connotati di un diritto soggettivo ad un fenomeno che in «rerum natura» non è concepibile. L’adozione presuppone l’eterosessualità dei componenti la coppia richiedente, siano essi coniugati o conviventi, e non si può pensare che sia salvaguardato il diritto dell’adottando inserendolo in un contesto «pseudo familiare». A mio modo di vedere, un giustizia amministrata in nome del popolo non può permettersi queste licenze deontologiche; il diritto si applica, non si inventa.
La sentenza alla quale si riferisce il nostro lettore è quella del Tribunale per i minorenni di Roma, che ha permesso l’adozione di una bambina di 5 anni, nata all’estero con fecondazione eterologa, da parte della compagna della madre biologica. Le due donne, sposatesi all’estero, sono conviventi da circa 10 anni. Come ha giustamente commentato il prof. Francesco D’Agostino, docente di Filosofia del diritto all’Università di Roma «Tor Vergata» e presidente dell’Ugci (Unione giuristi cattolici italiani), si tratta di una sentenza «ideologica» e frettolosa, che pone anche un problema di democrazia: «solo il popolo, attraverso i suoi rappresentanti, può decidere in merito. E se posso accettare, seppure con fatica, una legislazione in materia bioetica che vada contro i miei valori, poiché è stata assunta da un parlamento che rappresenta la maggioranza della popolazione, di sicuro non posso accettare che soggetti senza una legittimazione politica prendano decisioni irreversibili e facciano opinione pubblica».
Claudio Turrini