Vita Chiesa
Quando il Concilio parlava toscano
di Riccardo Bigi
Tra i tanti modi per ricordare il Concilio Vaticano II, a cinquant’anni dal suo inizio (11 ottobre 1962) la Facoltà Teologica dell’Italia centrale ha scelto di raccogliere in due giornate, lunedì e martedì scorso, un intenso programma di relazioni e comunicazioni. Il convego annuale dei docenti della Facoltà si è incentrato proprio sulla storia del Concilio e su come questo grande evento si sia inserito nel «divenire» della Chiesa. Uno sguardo particolare è stato riservato ai toscani al Concilio: e in particolare a tre figure che sono state tra i protagonisti, svolgendo un suolo significativo sia per gli incarichi loro affidati che per l’autorevolezza degli interventi pronunciati durante i lavori. Si tratta dell’arcivescovo di Firenze Ermenegildo Florit (non ancora cardinale: lo sarebbe diventato nel 1965), del vescovo di Livorno Emilio Guano e del vescovo di Prato Pietro Fiordelli.
A ricostruire il ruolo di Florit durante il Concilio, e in particolare nella commissione dottronale che si occupò della Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, conosciuta come Dei Verbum, è stato lo stesso preside della Facolta Teologica, don Stefano Tarocchi. Richiamandosi ai racconti del cardinale Umberto Betti (che Florit chiamò al suo fianco come perito teologo), Tarocchi ha ricostruito gli anni tra il 1962 e il 1965 e il difficile lavoro di mediazione svolto dall’Arcivescovo di Firenze per superare le tensioni e le contrapposizioni, ad esempio sul tema delle «fonti della Rivelazione». Il tema era quello del rapporto tra Tradizione e Scrittura.
Un momento particolarmente significativo in questo senso furono le giornate del 26 e 27 settembre del 1963, quando Florit riunì a Firenze (a Villa Cancelli, dalle suore Orsoline di San Carlo) un gruppo di vescovi e cardinali italiani e francesi, con lo stesso padre Betti e Roger Etchegaray (anche lui futuro cardinale) come rispettivi periti. Betti racconta, nei suoi Diari del Concilio, anche di una provvidenziale e benefica sosta a Fiesole, dal vescovo Bagnoli e poi al convento di S. Francesco.
Nel 1964, Florit sarà scelto come relatore di maggioranza all’interno della sottocommissione che aveva elaborato i primi due capitoli dello schema De divina revelatione. Nel suo diario, in data 25 settembre, P. Betti riferisce che Florit «sembra turbato da ritornanti ripensamenti». Finalmente, il 30 settembre, l’intervento in aula, che ebbe ampi consensi. Florit presentò il risultato raggiunto come punto d’equilibrio tra le varie scuole teologiche, con l’idea che il Concilio dovesse approfondire e reinterpretare la dottrina tradizionale, anche arricchendola di aspetti nuovi, ma non rimuovendone o modificandone parti sostanziali.
A Maria Enrica Senesi, docente alla Scuola di formazione teologica di Livorno, è toccato invece il compito di ricostruire la partecipazione al Concilio di monsignor Emilio Guano, vescovo di Livorno dal 1962 fino al 1970. Guano è stato membro dlla Commissione per l’apostolato edei laici e, dal 1963, ha presieduto la Sottocommissione centrale incaricata di redigere lo «Schema XIII», che poi sarebbe diventata la Gaudium et Spes. Guano aveva maturato la sua visione della Chiesa nel mondo, e del ruolo dei laici cattolici, durante il suo impegno di assistente della Fuci e del Movimento laureati di Azione Cattolica, prima a Genova e poi a livello nazionale. Il suo nome è quindi legato in modo particolare alla «Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo», ma i suoi interventi si ritrovano anche nelle discussioni sulla Rivelazione, sulla Chiesa come popolo di Dio, sulla necessità di destare e promuovere nella Chiesa una coscienza ecumenica. La professoressa Sanesi però ha voluto incentrare la sua relazione su un testo particolare al quale Guano dette il suo contributo: il messaggio dei Padri Conciliari al mondo. Proprio da questo testo infatti (il primo ad essere discusso, pochi giorni dopo l’apertura del Concilio) emergono alcune note «che hanno caratterizzato l’intero ministero di mons. Guano: la sua sensibilità pastorale, la sua attenzione al linguaggio e nello stesso tempo al rigore della dottrina, la ricerca del dialogo». Il Concilio, quindi, non solo come riflessione di carattere teologico e dottrinale, ma come espressione del desiderio della Chiesa di ascoltare le voci degli uomini e di mettersi a servizio dell’umanità.
Il convegno della Facoltà Teologica dell’Italia centrale ha fatto da preludio a un altro grande momento di studio storico sul Concilio: «Il Concilio Ecumenico Vaticano II alla luce degli archivi dei Padri Conciliari» è il tema del convegno promosso in Vaticano proprio in questi giorni, dal 3 al 5 ottobre. Un modo anche questo per spianare la strada a quel lavoro di conoscenza e assimilazione dei testi lasciati in eredità dai Padri conciliari, che il papa Benedetto XVI chiede nella lettera di indizione dell’Anno della Fede.
Temperamento deciso e combattivo, pur nell’umiltà dei modi, Fiordelli non fu affatto intimorito dalle dimensioni epocali dell’avvenimento conciliare e fu tra i primi vescovi a prendere la parola in aula. Lo fece il 20 ottobre 1962 quando appoggiò -senza esito- la proposta del card. Ferretto che nel messaggio al mondo il Concilio ricordasse i cristiani perseguitati e ne chiedesse la libertà.
Egli intervenne direttamente nove volte nei lavori conciliari: cinque volte in aula, quattro in forma scritta. Avanzò così alcune perplessità sul ristabilimento del diaconato permanente, difese l’importanza dei seminari minori nella formazione seminaristica, sostenne il carattere ecclesiale della preghiera liturgica in tutte le forme di vita consacrata, propose l’adozione di un linguaggio più ampio (vita consacrata) che includesse tanto la vita religiosa quanto la secolarità consacrata. Tuttavia, i suoi più rilevanti e significativi interventi furono sulla famiglia. Fu specialmente in essi che investì il suo impegno, chiedendo consiglio anche a Igino Giordani e sollecitando l’appoggio del card.Ottaviani.
Articolando un’ecclesiologia della famiglia che più volte ripropose in Concilio, egli diceva che i livelli comunitari della Chiesa non sono solo quello universale, quello diocesano, quello parrocchiale: c’è anche un quarto e fondamentale livello, di diritto divino, la famiglia cristiana, piccola o minuscola chiesa, alla quale presiedono (ministerialmente) il padre e la madre. Oggi, da molti teologi (italiani e non italiani) si sottolinea il ruolo fondamentale che Fiordelli ha svolto riguardo alla teologia della famiglia e si sostiene che la teologia conciliare (Lumen Gentium,11) e post-conciliare della chiesa domestica nasce dai suoi interventi.
Solo Fiordelli di fatto insistette su questo. Anche se fu notato almeno da un padre, il polacco K.Wojtyla, fu poco ascoltato, a tal punto poco ascoltato che quando il 5 dicembre 1962 avanzò per la prima volta la sua visione ecclesiologica della famiglia fu messo a tacere dal moderatore, il card.B.Alfrink, perché fuori tema. Il vescovo di Prato ne soffrì molto, anche se reagì prontamente chiedendo di recepire almeno l’intervento scritto e successivamente fece di tutto per tornare in aula sul tema.
Là dove è, il vescovo Fiordelli avrà sicuramente gioito sentendo il suo nome risuonare sotto le volte di Notre Dame di Parigi quando un predicatore celebre come Philippe Bordeyne cominciò la conferenza quaresimale del 3 aprile 2011 su La famiglia, chiesa domestica dicendo: «Per impulso di Mons. Fiordelli, un vescovo italiano che aveva consacrato il suo ministero al movimento familiare cristiano, il Concilio Vaticano II decise di introdurre, seppure di passaggio, un’analogia tra la famiglia cristiana e la Chiesa». E lo diceva a titolo di onore e di riconoscenza.