Cultura & Società
Quale destino per la campagna toscana
di Francesco Gurrieri*
Cosa c’entra il «paesaggio agrario» con Adam Smith (1723-1790)? C’entra eccome, perché lo studioso scozzese fu forse il primo muovendosi tra filosofia morale ed economia politica a porre la dovuta attenzione all’agricoltura come strumento di produzione, quando quell’attività era ancora primaria nell’economia del paese. Solo abbastanza più tardi (1933) si comincerà a interrogarsi e a percepire autonomamente l’idea di «paesaggio agrario»: sarà infatti il geografo inglese P.W. Bryan col suo «Man’s adaptation of nature» a porre la questione, ma senza rilevante seguito. Così, in Italia, bisognerà aspettare il 1961, per avere il primo testo sistematico sull’argomento: la «Storia del paesaggio agrario» di Emilio Sereni: un libro in cui saranno gettate le basi sul concetto oggi persino ovvio del paesaggio extraurbano ( e agrario, in particolare) quale prodotto delle trasformazioni e delle sedimentazioni del lavoro dell’uomo: sottolineando come il paesaggio «naturale» è tutt’altro che tale, essendo stato continuamente rimodellato nel tempo dall’attività umana, tesa a modalità colturali spiegabili sostanzialmente con le ragioni della produttività e del mercato.
In questo senso si capisce bene come il dibattito attuale, responsabilmente ripreso dall’Accademia dei Georgofili (la massima autorità del settore, unanimemente riconosciuta) si riagganci alle remote considerazioni di Adam Smith.
Il dibattito intorno al «paesaggio» si è dimostrato troppo spesso generico e di difficile controllo. A ciò, ovviamente, hanno concorso punti di vista diversi, afferenti alle diverse discipline di osservazione, generando se pur in buona fede contraddizioni e posizioni apodittiche, spesso tradotte in rigide normative. L’attenzione per il «paesaggio» ha avuto fasi alterne e oscillazioni di attenzione. Senza stare a ripercorrerne la storia, da Il Bel Paese di Antonio Stopani (1873), alla Conferenza di Berna (1913), all’impegno di N.A. Falcone con Il paesaggio italico e la sua difesa (1914), all’impegno dell’Editore Morpurgo a partire dal 1928 con le monografie sul paesaggio delle regioni italiane coordinate da Luigi Parpagliolo, (un’opera, fu detto, di «geografia estetica») si arriva al 1939 con la Legge n. 1497, messa a punto da Gustavo Giovannoni per il ministro Bottai: una legge quest’ultima, rimasta invariata e trasferita, nei contenuti, nel Decreto Legislativo n. 42 / 2004 – «Codice dei beni culturali e del paesaggio».
Ma va ricordato che fra gli anni ’60 e ’70 con la crescente autonomia dell’urbanistica e l’avviarsi sistematico dei Piani Regolatori Comunali, nonché la delega di questa materia alle nascenti regioni, il termine «paesaggio» ebbe un vero e proprio oscuramento; lo testimonia il fatto che, quando nel 1975, Giovanni Spadolini promuove il nuovo ministero, questo si chiamerà «Ministero per i beni culturali e ambientali». L’aggettivo «ambientale» era uscito dal voto in Parlamento ma era stato proposto dal ministro col sostantivo «ambiente» (che, di lì a poco, avrebbe avuto un autonomo ministero in altra area politica). Interessante e chiarificatore l’intervento di Spadolini avverso la proposta del grande senatore Valitutti, suo compagno di partito:
«Ecco perché mi permetto di anticipare il no che il Governo darà all’intenzione che ella, sen. Valitutti, propone per il Ministero come Ministero dei beni culturali e del paesaggio; non perché io non senta in me crocianamente, per una comune derivazione crociana, l’eco di questa parola paesaggio che risuona anche nel progetto che in questo Senato, alla fine del 1920, l’allora Ministro della pubblica istruzione, Benedetto Croce, presentò per la difesa del verde e che neanche allora, per la verità, fu accolto, ma perché il termine paesaggio, pur inserito nella nostra Carta Costituzionale, non recepisce più e non esaurisce questa complessa realtà della cornice naturale del bene culturale. In questo senso fu mio sforzo, in tutta l’elaborazione interministeriale di questo decreto, evitare che tornasse anche una sola volta la parola paesaggio».
Dunque il 1975 segna il declino del termine «paesaggio» e mette definitivamente in archivio il termine «bellezza naturale». Per 25 anni, fino al 2000, si parlerà solo di «ambiente» e di «beni ambientali».
Il 2000, dopo le conferenze di Napoli e di Roma, ci regalerà la «Convenzione Europea del Paesaggio», mettendo a punto una definizione che traslerà senza modifiche nel «Codice» del 2004: «Per paesaggio si intende una parte omogenea di territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni».
È a questo punto che il paesaggio torna protagonista di un dibattito assai acceso, con nuove complessità e contraddizioni, moltiplicate dai diversi soggetti istituzionali che vi convergono; Ministero per i beni e le attività culturali, Regioni , Province, Comuni. Il paesaggio è ora richiamato nel PIT (Piano di indirizzo territoriale, afferente alla Regione), nel Ptc (Piano territoriale di coordinamento, afferente alla Provincia), il Ps e il Ru (Piano strutturale e Regolamento urbanistico, afferente al Comune); e, naturalmente, nel Piano paesaggistico richiamato dal «Codice», ove all’art. 135 («Pianificazione paesaggistica») si dice che «il piano paesaggistico definisce, con particolare riferimento ai beni di cui all’art. 134, le trasformazioni compatibili (si noti la tautologia) con i valori paesaggistici, le azioni di recupero e riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela, nonché gli interventi di valorizzazione del paesaggio, anche in relazione alle prospettive di sviluppo sostenibile». Il «corto circuito» culturale e di definizione si fa completo, quando all’articolo successivo (art. 136, comma «d»), nella individuazione dei «beni paesaggistici» torna la vecchia denominazione della legge Bottai (1939) con le «bellezze panoramiche considerate come quadri e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di queste bellezze»!
Nella Legge Regionale n. 1/2005 vigente, il «patrimonio naturale» e la «disciplina paesaggistica» sono presenti agli artt. 31-35, mentre il «territorio rurale» è richiamato agli artt. 39-40.
Art. 39: Gli strumenti della pianificazione territoriale e gli atti di governo del territorio promuovono la valorizzazione dell’economia rurale e montana attraverso il consolidamento del ruolo multifunzionale svolto dall’attività agricola anche integrata con le altre funzioni e settori produttivi con la tutela e coerenti con la valorizzazione delle risorse del territorio, ivi comprese le attività di fruizione del territorio rurale per il tempo libero, la produzione per autoconsumo e la salvaguardia delle risorse genetiche autoctone, nonché attraverso il sostegno delle famiglie residenti in funzione del mantenimento della presenza umana e presidio dell’ambiente, anche adeguando i servizi e le infrastrutture nelle aree marginali.
Gli strumenti della pianificazione territoriale e gli atti di governo del territorio disciplinano gli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia necessari allo sviluppo dell’agricoltura, delle attività ad essa connesse e delle altre attività integrate e compatibili con la tutela e l’utilizzazione delle risorse dei territori rurali e montani.
I comuni attraverso gli strumenti della pianificazione territoriale e gli atti di governo del territorio, disciplinano le aree dei territori rurali attraverso specifiche discipline che garantiscano la salvaguardia e la valorizzazione dell’ambiente e del paesaggio rurale, nonché la tutela delle risorse produttive dell’agricoltura. Nell’ambito delle comunità montane, i comuni provvedono in relazione con il piano di sviluppo delle comunità stesse.
Art. 40: Zone con esclusiva o prevalente funzione agricola
Nell’ambito del territorio rurale, gli strumenti della pianificazione territoriale e gli atti di governo del territorio individuano le zone con esclusiva o prevalente funzione agricola.
Per zone con esclusiva o prevalente funzione agricola, al cui comma 1, si intendono quelle individuate in considerazione del sistema aziendale agricolo esistente, della capacità produttiva del suolo, delle limitazioni di ordine fisico, della presenza di infrastrutture agricole di rilevante interesse, della vulnerabilità delle risorse nonché della caratterizzazione sociale ed economica del territorio.
Le zone di cui al comma 1 sono articolate in sottozone, in relazione alla funzione agricola e in rapporto alla caratterizzazione sociale, ambientale e paesaggistica degli ambienti territoriali interessati.
Le zone ad esclusiva funzione agricola, che sono assunte come risorsa essenziale del territorio limitata e non riproducibile corrispondono alle aree di elevato pregio a fini di produzione agricola, anche potenziale, per le peculiari caratteristiche pedologiche, climatiche, di acclività e giacitura del suolo o per la presenza di rilevanti infrastrutture agrarie e/o sistemazioni territoriali.
Nelle zone con esclusiva funzione agricola sono di norma consentiti impegni di suolo esclusivamente per finalità collegate con la conservazione o lo sviluppo dell’agricoltura e delle attività connesse.
Il territorio rurale è soggetto ai vincoli di salvaguardia della normativa vigente in relazione all’approvvigionamento idropotabile.
Il dibattito intorno al «paesaggio»
C’è ragionevolmente da prendere atto che la norma «regionale» non vincola strettamente il territorio agricolo e rurale, rimandando alle norme degli strumenti comunali. È qui che si trovano, talvolta, modalità incomprensibilmente restrittive che fanno poi parlare di «conservazione del paesaggio agrario che danneggia gli agricoltori». La contraddizione si manifesta nei seguenti termini: da una parte gli urbanisti (e/o paesaggisti) con la normativa obbligano l’imprenditore agricolo a conservare la maglia agraria designandolo quasi come unico manutentore e responsabile della tessitura storica; per contro, quando il territorio agrario viene «ceduto» per altri usi non sussistono quasi mai obblighi di questo tipo. Non solo, ma spesso l’agricoltore è obbligato a mantenere le colture agrarie esistenti anche quando non sono più remunerative, così come spesso si legge dell’obbligo di conservare la vegetazione delle bordure. E qui emerge un’altra contraddizione: perché l’agricoltore deve essere obbligato a mantenere le specie vegetali mentre nei giardini sia pubblici che privati si mettono a dimora piante di ogni specie senza limiti e controlli? Di fatto, pare ci sia più libertà di turbare il paesaggio con il verde ornamentale che con quello produttivo. Ed ancora: perché l’agricoltore deve essere obbligato a mantenere gli «oliveti storici» mentre le pubbliche amministrazioni abbattono con disinvoltura le alberature stradali ? Non hanno forse anche quest’ultime un valore storico-culturale ? Certa nouvelle-vague tenderebbe ad eliminare dalle nostre città i «pini»: un albero che, iconograficamente, identifica il paesaggio italiano (e toscano): si argomenta che le radici danneggiano rapidamente il manto stradale e i rami si spezzano facilmente e che quindi sono alberi «costosi» da mantenere. Ma allora è un costo anche mantenere le colture agrarie tradizionali, indipendentemente dalle richieste di mercato e dall’evoluzione delle tecniche agrarie! Perché questo costo non deve essere riconosciuto all’imprenditore agricolo in qualche forma? Per la verità, almeno inizialmente (art. 34 L.R. 1/2005) faceva carico a province e comuni di trovare «misure incentivanti… per la gestione del paesaggio regionale», ma non risulta applicato in alcun caso, a prescindere dal fatto che codesta indicazione è stata abrogata nel 2008.
Qualche ulteriore stigmatizzazione sarebbe possibile anche per i contenuti della Legge Forestale (L.R. 39/2000), per gli effetti contraddittori che è capace di produrre, ma sarà argomento per altra occasione.
Qui, insomma, si vuol dire che che il coacervo di normative sul paesaggio agrario sembra, talvolta, mancare di coerenza e di adeguate misure di «perequazione». Se il paesaggio è un valore storico-culturale da tutelare (e non c’è dubbio che lo sia), allora tutta la collettività dovrebbe concorrere alla sua salvaguardia.
Ipotesi per un «paesaggio peri-monumentale»
Se questo incontro nasce proprio dalla coscienza che, negli ultimi due decenni l’idea di paesaggio è stata tirata, ad usum delphini, verso enfatizzazioni ed estremizzazioni che creano inutili conflittualità fra due ragioni fondamentali, il diritto alla tutela del paesaggio e il diritto all’uso e alla sua conformazione produttiva , diciamo, sommariamente, fra gli architetti e gli agronomi (anche se non poche altre competenze si implementano nello stesso problema), può essere opportuno tentare di tracciare delle «linee di uscita» dallo scenario attuale.
Si è del parere che il problema possa essere affrontato, in ipotesi, da tre punti di vista: a) i contenuti della normativa nella Legge regionale e nei Regolamenti comunali;
b) la definizione di contesti definiti di paesaggio, ove sia sufficientemente esplicito il ruolo del paesaggio, a complemento di un contesto monumentale (che potremmo definire «peri-monumentale»;
c) il paesaggio oggettivamente extraurbano (rurale agricolo boschivo od altro).
Introduciamo l’ipotesi di una nuova (e parziale) tipologia di paesaggio: il «paesaggio peri-monumentale», intendendo per questo quel «particolare paesaggio che circonda un monumento o un piccolo centro storico, concorrendo alla conservazione dell’immagine e del bene culturale».
Si propongono alcuni «casi», atti ad esemplificare l’idea di «paesaggio peri-monumentale», che potrebbe avere, effettivamente, una normativa a sé: Monteriggioni, Colle Valdelsa, Mantignano, Badia a Settimo.
MONTERIGGIONI. Intanto, è il caso di notare come la perimetrazione di «tutela» (ex L. 1497/1939) non coincida col perimetro del Regolamento Urbanistico, ma è più esteso. Proprio nel R.U. , all’art. 49, si legge che «… devono essere conservate le ormai limitatissime tracce della tessitura agraria precedente (presenze arboree, fossi bordati da vinchi, salici e gelsi, viabilità campestre). Purtroppo, nonostante le buone intenzioni ecco apparire una vasta area di parcheggio che aperta ad ogni esito potrebbe essere già una contraddizione in termini di quanto affermato a salvaguardia. Da qui l’opportunità della individuazione «peri-monumentale», capace di costringere il progettista ancora in fase pre-progettuale, a specifiche e simulazioni congruenti e convincenti.
COLLE DI VAL D’ELSA. Evidenziamo come un’area in fregio all’edificato più antico, originariamente agricola, ha cambiato uso divenendo parcheggio e giardino pubblico mantenendo però inalterato il carattere rurale e i valori paesaggistici. Sono stati mantenuti gli olivi che in questo caso hanno certo più un valore ornamentale che produttivo.
BADIA A SETTIMO E PIEVE DI SAN GIULIANO A SETTIMO. Siamo nel comune di Scandicci. Questi importanti complessi religiosi sorgono in quella che una volta era un’estesa area agricola. Oggi il contesto è completamente cambiato. Permangono comunque all’intorno numerosi appezzamenti agricoli. L’uso del suolo è imposto per norma dagli strumenti urbanistici; ma quale futuro per questi episodi di agricoltura sempre più «residuale» e isolata? Quanto resteranno tali nell’uso effettivo e nella destinazione urbanistica? La perdita, spontanea e progressiva, dell’uso agricolo di questi territori rischia di decontestualizzare definitivamente queste emergenze architettoniche.
MANTIGNANO. Intorno alla chiesa romanica di Santa Maria a Mantignano nel comune di Firenze troviamo un’ampia casistica dell’uso del suolo una volta tutto agricolo. Qui non abbiamo un vincolo di tutela (ex L.1497/39). Ad oggi molti campi sono stati edificati cancellando anche parte della maglia territoriale ma permangono ancora i seminativi e le colture ortive. Sul lato occidentale del complesso è stato realizzato un giardino pubblico attrezzato che, in questo caso, non mantiene le caratteristiche di ruralità. Le previsioni di piano riducono ulteriormente il terreno agricolo impegnandolo con altre destinazioni (attrezzature e servizi, verde pubblico, cimitero ). Sarà presumibilmente il vincolo cimiteriale previsto, con la sua inedificabilità, a salvaguardare in parte e casualmente l’immediato intorno di questo complesso monumentale. Da qui ancora l’opportunità forse di individuare soluzioni ad hoc per contesti di questo tipo.
«Il paesaggio agrario. Proposte per una revisione della vigente disciplina» è il tema dell’incontro di studio che si è svolto il 9 febbraio presso l’Accademia dei Georgofili a Firenze. Il convegno non è stato rivolto solo ad evidenziare aspetti negativi del codice Urbani (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n° 42) criticato per non aver prestato attenzione alla mutabilità del paesaggio agrario stante le esigenze di continua innovazione e competitività delle imprese agricole, ma anche a ricercare e formulare proposte condivise per tracciare «linee di uscita» con una utile revisione delle vigenti discipline.
Di seguito uno stralcio della relazione tenuta dal prof. Franco Scaramuzzi, presidente dei Georgofili.
Ritengo da evidenziare quattro soli punti prioritari che riteniamo debbano essere contemplati nell’auspicata revisione del Codice Urbani e delle normative che ne sono derivate, anche a seguito di equivoci margini interpretativi:
1) Aggiungere norme sui danni, responsabilità e indennizzi. I danni economici arrecati agli agricoltori dalle norme legislative del Codice Urbani relative alla conservazione e pianificazione del paesaggio agrario erano stati preconizzati e sono stati purtroppo già riscontrati. Ma il Codice non aveva contemplato alcuna previsione di danni e quindi nessuna indicazione di responsabilità e di doverosi indennizzi. Si ritiene che possano sussistere anche i presupposti per una forte Class Action da parte degli agricoltori. Ad esempio, da parte degli olivicoltori che le normative vigenti costringono a mantenere in essere anche oliveti con bilanci passivi.
2) Escludere i Paesaggi agrari dai vincoli del Codice Urbani
I Paesaggi agrari, costituiti da superfici utilizzate per coltivazioni o allevamenti. Le imprese agricole interessate, così come quelle di qualsiasi altro settore produttivo, per poter rimanere competitive sui mercati devono potersi tempestivamente innovare, avvalendosi di ogni nuova conoscenza. Devono quindi essere necessariamente libere di scegliere gli indirizzi e le tecniche produttive più opportune per conseguire risultati economici positivi. Solo così le attività agricole potranno sopravvivere e continuare a conferire al paesaggio, anche se con caratteristiche cangianti nelle stagioni e negli anni, l’apprezzato e dominante verde delle piante rigogliose e curate.
3) Tutela della superficie agraria utilizzabile
Le superfici agrarie coltivabili rappresentano, nel loro complesso, un bene prezioso e limitato. Ciò vale ormai a livello dell’intero nostro pianeta. Tanto che, per soddisfare le crescenti esigenze alimentari mondiali, in poche decine di anni sarà necessario raddoppiare la complessiva produzione attuale, facendo leva su incrementi unitari per ettaro piuttosto che sulla espansione delle superfici coltivabili. Queste autorevoli indicazioni degli Organismi mondiali competenti non vanno sottovalutate e tantomeno si può far finta di non conoscerle. A livello nazionale, la situazione è ancor più grave perché da tempo la Superficie agraria utilizzabile va progressivamente riducendosi. Si parla del 20% di superficie agraria perduta negli ultimi dieci anni. È prevedibile che la progressiva urbanizzazione in atto nelle nostre campagne continui a svilupparsi in modi irreversibili, nonostante che i piani territoriali per la conservazione del paesaggio rurale (L.R. 1/2005, art. 40) avessero considerato a parte le aree «a prevalente funzione agricola».
Sarebbe quindi necessario che i piani territoriali non entrassero nel merito della conservazione del paesaggio agrario ma, richiamandosi ai criteri applicati per la determinazione della Superficie agraria utilizzabile, contemplassero invece vincoli rigidi sulla destinazione d’uso degli attuali terreni agricoli.
Garantendone l’attuale destinazione assicureremo gli agricoltori che in quelle aree potranno liberamente sviluppare, nel tempo, loro programmi aggiornati ed attuare razionali coltivazioni, producendo un rigoglioso verde cangiante, ma sano ed efficiente nei suoi dinamici ruoli sia produttivi che ambientali ed anche paesaggistici. Ruoli di «interesse per l’umanità».
4) Conservazione di tradizionali modelli di agricoltura aventi interesse storico-culturale
Questi intenti erano già manifestati e contemplati nella Legge 431 del 1985 («Legge Galasso») che, pur escludendo esplicitamente dai propri vincoli «l’attività agro-silvo-pastorale», contemplava la possibilità di tutelare esempi di agricolture di particolare interesse storico. In casi di motivata opportunità, da sottoporre ad adeguate valutazioni e formali approvazioni con procedure da definire, potrebbero essere esercitati vincoli di conservazione paesaggistica. Ma solo ad isolate e piccole aree agricole, aventi forte interesse storico-culturale. Le superfici interessate dovranno essere limitate al minimo indispensabile per raggiungere lo scopo. Esse potrebbero essere acquisite mediante esproprio per pubblica utilità o attraverso accordi mediati con gli imprenditori agricoli coinvolti. Dovrebbero comunque essere mantenute e condotte con i criteri e metodi tradizionali per i soli fini che ne hanno determinato l’intervento a scopo conservativo. In caso di inadempienza della pubblica amministrazione, il proprietario dovrebbe rientrare in possesso dei propri beni per un libero uso agricolo.
Come tradurre in termini giuridici questi concetti spetterà a chi ne ha competenza. L’eventuale loro adozione spetterà a chi ha la responsabilità di introdurli nella normativa vigente.
Franco Scaramuzzi