Toscana
Psichiatria in Toscana, si conclude la nostra inchiesta
Con il «primo piano» di questa settimana si conclude la nostra inchiesta sulla psichiatria in Toscana iniziata nel numero 1 dell’8 gennaio scorso. Ricordiamo qui gli argomenti trattati nelle nove puntate precedenti.
La Regione punta sulle associazioni
Uno su quattro: fa davvero impressione, eppure è questa la percentuale di cittadini europei che sperimenta, nel corso di un anno, una forma di disagio mentale. Anzi, detto così il dato è approssimato per difetto, visto che gli studi compiuti attestano la percentuale al 27%. Una moltitudine in costante aumento, soprattutto tra i giovanissimi e gli anziani, e la precarietà derivante dalla crisi che investe l’Occidente non fa altro che gettare benzina sul fuoco. Secondo altre ricerche recenti (2010), nell’intera Unione europea si può parlare di veri e propri disturbi di salute mentale per un cittadino su dieci, e in molti stati la depressione rappresenta tout court il problema di salute più comune. Non solo: gli italiani, dipinti come popolo allegro, presentano, secondo le stesse fonti, uno stato emotivo di gran lunga più negativo rispetto alla media europea.
Un quadro preoccupante, quindi, che avevamo già visto nella seconda puntata della nostra inchiesta sulla psichiatria in Toscana, pubblicata sul numero del 29 gennaio scorso in occasione della presentazione di un’indagine dell’Agenzia regionale di sanità, e che è stato riproposto giovedì 5 luglio a Palazzo Strozzi Sacrati, sede della presidenza della Giunta regionale toscana, nell’ambito della firma di un protocollo tra la stessa Regione rappresentata dal direttore generale per i Diritti di cittadinanza e coesione sociale, Edoardo Michele Majno e il Coordinamento toscano delle associazioni per la salute mentale, la presidente Gemma Del Carlo. Ed è stato proprio Majno a sottolineare come sia improprio oltre che scorretto lo stesso termine «malato di mente» dal momento che il disagio psichico bene o male, direttamente o no, finisce per riguardare tutti.
Nel protocollo, Regione e Coordinamento concordano «sulla necessità di attivare e sviluppare forme di cooperazione e integrazione al fine di assicurare una più ampia azione di promozione a tutela della salute mentale della popolazione della Toscana» e per questo «si impegnano a concordare azioni congiunte e a collaborare a singole iniziative rispondenti agli indirizzi programmatici condivisi». Un ulteriore, importante passo verso una convergenza d’impegno tanto più necessaria in quanto alla «domanda» crescente si affianca, per colpa della crisi, lo spettro della diminuzione delle risorse che obbliga a razionalizzare e a ottimizzare gli sforzi. «Il nuovo Piano Sanitario e Sociale Integrato Regionale 2012-2015, che nei prossimi mesi sarà approvato dal Consiglio Regionale ha sottolineato non a caso il nuovo assessore al Diritto alla salute Luigi Marroni, assente per altri impegni alla firma, in una dichiarazione affidata all’agenzia d’informazione della Giunta dedica alla salute mentale un ampio capitolo, ponendosi l’obiettivo di accogliere i bisogni delle persone di ogni età con disturbi psichici e promuovere servizi finalizzati a percorsi di prevenzione e ripresa. Per questo è fondamentale la collaborazione con le associazioni di familiari e utenti, che ci consente di intercettare prima possibile il disagio psichico e mettere a punto interventi sempre più mirati ed efficaci». E visto anche il sempre più preoccupante quadro epidemiologico, ha aggiunto, « diventa indispensabile trovare nuovi approcci, più proattivi degli attuali, capaci di intercettare il bisogno e di riorganizzare i servizi in modo adeguato alla domanda, per rispondere con tempestività, pertinenza, efficacia».
Una scommessa, anzi, la scommessa da vincere, come abbiamo cercato di dimostrare attraverso la nostra inchiesta, che si conclude con il «primo piano» di questa settimana rimandando ad un successivo approfondimento la questione della dismissione dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. Dieci puntate in cui abbiamo cercato di dare conto dei problemi ma anche delle «buone pratiche» e delle esperienza positive, senza la pretesa di fornire un impossibile quadro di tutte le situazioni locali, purtroppo ancora assai diversificate tra loro.
La firma del protocollo rappresenta certamente, in questo senso, non un punto di arrivo ma di partenza nell’ambito della prossima applicazione delle stesse linee guida del Piano Sanitario che, perché non restino lettera morta, necessiteranno senz’altro di opportuni strumenti di verifica, a cominciare dall’analisi dei dati sull’efficacia dei servizi, finora forniti in modo decisamente parziale.
La psichiatria dovrà quindi uscire da una gestione autoreferenziale ormai superata, perché se è vero che gli operatori, tecnici o professionisti che dir si voglia (medici, infermieri, animatori) restano indispensabili per affrontare in modo adeguato malattia e disagio, è altrettanto vero che la salute mentale è una questione che riguarda tutti e che investe profondamente l’intera società. E se è da considerare ormai superata l’impostazione ideologica che vede la malattia mentale come conseguenza delle contraddizioni sociali, è altrettanto vero che una solidarietà diffusa può creare le condizioni per affrontarla nel migliore dei modi. In questo senso le esperienze associative dei familiari e degli stessi utenti sono una ricchezza di cui fare sempre maggiormente tesoro, come ha dimostrato anche l’incontro di Casa al Giogo, cui accenniamo in queste pagine, ma dovrebbe al tempo stesso crescere in questo settore il volontariato tout court, non circoscritto cioè a chi con la malattia mentale ha purtroppo a che fare, e magari anche lo stesso privato sociale. E in questo senso ci sarà forse bisogno di una crescita di sensibilità anche all’interno della comunità cristiana verso questi «ultimi» così particolari ma che restano in ogni caso persone con la loro dignità, le loro attese, i loro desideri. Dignità, attese e desideri che costituiscono comunque il punto da cui partire per qualsiasi buona pratica di salute mentale. Perché se spesso il disagio psichico nasce come risposta «sbagliata» a un’esigenza vera e reale, la cura di quel disagio non può consistere nell’inibizione di quell’esigenza invece che nella correzione della risposta. Come afferma Alessandra, esponente della Rete degli Utenti della provincia di Massa Carrara, non si può pretendere di curare la mente ignorando il cuore.
«Familiari consapevoli», incontro al Giogo
«Cara Maria Grazia, in questi due giorni al Giogo abbiamo riflettuto sul lavoro che come Rete Regionale degli utenti state portando avanti. Abbiamo capito l’importanza della sfida che avete intrapreso per il riconoscimento del vostro fondamentale sapere di natura esperienziale. Sappiamo che l’incontro tra il vostro sapere e il nostro produrrà una crescita di consapevolezza per tutti noi. Sappiate che non solo condividiamo il vostro lavoro ma cercheremo di essere più presenti alle vostre iniziative». Queste poche righe indirizzate alla presidente della Rete regionale degli utenti di salute mentale, Maria Grazia Bertelloni, hanno concluso la due giorni che ha visto impegnati sabato 7 e domenica 8 luglio al Rifugio Casa al Giogo, nei pressi del Giogo di Scarperia in provincia di Firenze, i rappresentanti di molte associazioni di familiari della Toscana.
Casa al Giogo, bell’immobile del patrimonio agricolo forestale regionale recuperato alcuni anni fa come centro d’incontro e convivialità e di accoglienza per turismo sociale e iniziative socioculturali, ospita da alcuni anni grazie soprattutto all’impegno dell’associazione mugellana «Astolfo», guidata da Beppe Pratesi l’iniziativa «Familiari consapevoli», giunta ormai al sesto appuntamento, che quest’anno ha avuto tra gli argomenti di dibattito anche l’inchiesta che abbiamo portato avanti in questi mesi, segno di un’attenzione che ci ha colpito e di cui siamo grati. Tema di fondo della due giorni, sintetizzato da una frase di Alessandra (utente della provincia di Massa Carrara) e confermato dallo psichiatra Pino Pini nell’intervento del pomeriggio del sabato, era appunto rappresentato dal fatto che il «sapere» degli utenti psichiatrici, appreso sulla propria pelle attraverso l’esperienza diretta, è altrettanto importante di quello degli operatori. In quest’ottica sono state proposte, domenica mattina, le esperienze delle associazioni «Comunicare per crescere» di Piombino, «Matilde» di Viareggio, «Riabilita» di Siena e «Oltre l’orizzonte» di Pistoia.
L’importanza di una sempre maggior comprensione tra familiari e utenti di salute mentale è stata ben evidenziata nella mattinata di sabato da un intervento di Francesca, un’utente che a partire dalla propria esperienza ha sottolineato come il non essere capiti all’interno della propria famiglia sia molto peggio che non essere capiti nella società, chiarendo però che le famiglie di questo non hanno colpa, ma vanno aiutate a capire ed aiutare la persona che sta male.
I lavori dei due giorni sono stati seguiti anche da Marzia Fratti della Regione Toscana, che ha evidenziato l’importanza di un percorso di confronto tra i vari soggetti in questione (utenti, familiari, operatori). Imporre, ha detto, non serve e il superamento delle autoreferenzialità richiede necessariamente del tempo. L’importante è porre il miglioramento dei servizi come obiettivo comune, superando divisioni e contrapposizioni e procedendo in una logica propositiva e collaborativa che sappia anche coinvolgere i medici di base, nonché in una «cultura della valutazione» non per definire primi e ultimi della classe ma per crescere tutti davvero in qualità e aprire prospettive concrete anche nel campo dell’inserimento lavorativo. Marzia Fratti ha inoltre comunicato la ricostituzione della Commissione regionale per il governo clinico della salute mentale, affidata al direttore del Dipartimento interaziendale salute mentale di Siena, lo psichiatra Andrea Fagiolini, che proseguirà il lavoro avviato da Galileo Guidi, pure intervenuto al Giogo nella mattinata di domenica. Una nomina che sa anche di riconoscimento, sia pure indiretto, al valore dell’esperienza senese del Dism, realtà «pioniera» già trattata nella nostra inchiesta e che dal prossimo autunno dovrebbe essere realizzata anche a Pisa.
Le testimonianze: «Dopo tanti anni di attività ora dico basta: qui manca il dialogo, la battuta, la risata»
«Scrivo a lei, dottore, perché ritengo giusto dare una spiegazione della mia assenza. Posso farlo però solo tramite lettera perché la mia emotività non mi permetterebbe, incontrandoci, di mettere i giusti pesi sulla bilancia e verrebbe compromesso il messaggio che voglio comunicarle». Sono le parole di un utente fiorentino al responsabile del proprio servizio territoriale (ufficialmente «modulo operativo multidisciplinare») per la salute mentale adulti. Una lettera attraverso cui Rodolfo (nome di fantasia), alla soglia dei quarant’anni, con esperienze positive nel campo dello spettacolo, ha voluto manifestare il proprio disagio dopo anni di rapporto con gli operatori. Ne citiamo alcuni stralci, ovviamente con il permesso dell’autore, perché ci sembra che dal racconto della sua esperienza emergano le criticità fondamentali del sistema.
«Non mi importa continua Rodolfo delle tante incomprensioni che ho vissuto nel servizio, incomprensioni abbastanza nette perché nate non dall’incompetenza di chi gestisce, bensì dalla leggerezza, spesso nota a chi si affida al servizio. Ma non importa chi ha torto o chi ha ragione perché contano soltanto le persone; la ragione, per chi sta male è un punto creduto di arrivo ma le persone, se appassionate al loro lavoro, sono un grande punto di partenza e quindi di crescita». Ancora: «Fare diagnosi è il vostro mestiere, (…) il nostro (dei pazienti) è quello di farci capire. Posso però parlare di ciò che non c’è. Manca il dialogo, la battuta, la risata, l’incontro, in una sola parola manca l’affettività che porta sempre ottimi risultati. Noto che da sei anni a questa parte, la mancanza di rapporti con molti, porta solo la costruzione di muri che non facilitano nel bisogno, nell’urgenza della sofferenza, l’accesso al servizio».
Rodolfo annuncia quindi la sua intenzione di sospendere le attività terapeutiche «per pensare strade diverse» e torna su ciò che a suo parere deve contraddistinguere il servizio, sottolineando che «le persone appassionate al loro operato, sono cercate dai ragazzi stessi, perché si avverte che parlano per noi anche sbagliando». E conclude accennando a un’altra questione fondamentale: «Il fatto di non poter cambiare medico o quartiere crea una dipendenza che non giova ai rapporti e alle attività. I ragazzi diventano non sinceri o comunque condizionati da questa forma di ricatto. Anche per me è un problema questa mia sincerità, ovviamente pensando a un bisogno futuro, al mio piano terapeutico; insomma il bisogno serve da bavaglio». La speranza finale, assieme ai saluti, è «che questa mia sia servita a qualcosa, anche per gli altri ragazzi»: una solidarietà che fa anch’essa pensare e che commuove pure.