Toscana

Psichiatria in Toscana/4: «Serve la voglia di migliorarsi»

Come abbiamo scritto nella prima puntata di questa inchiesta, pubblicata sul numero 1 dell’8 gennaio (Psichiatria in Toscana/1), nel corso del convegno «Quanto la persona è al centro della sua cura», promosso alla fine di novembre dal Coordinamento toscano delle associazioni per la salute mentale assieme alla Regione, fu particolarmente apprezzata la comunicazione di Andrea Fagiolini – docente di Psichiatria a Siena, trasferito dall’Università di Pittsburgh – sull’esperienza, avviata lo scorso giugno, del Dipartimento interaziendale di salute mentale da lui diretto. Lo abbiamo così contattato per un parere a trecentosessanta gradi sulle problematiche esistenti.

Professore, partiamo da un chiarimento. Sia nel convegno cui ha partecipato a novembre che nelle linee guida alla base del prossimo Piano sanitario regionale, si è insistito molto sul concetto di personalizzazione della cura. Perché è così importante e quali difficoltà comporta?

«In psichiatria ci sono malattie profondamente diverse non solo nella loro manifestazione ma anche nelle terapie di cui necessitano. Per esempio, un paziente con schizofrenia richiede particolari farmaci, particolari interventi anche di sostegno sociale, di psicoeducazione per conoscere la propria malattia, di educazione alla famiglia, quindi un approccio integrato abbastanza complesso, anche perché nessun paziente schizofrenico è uguale a un altro. Neanche rispetto ai farmaci, che sembrerebbero la parte più standardizzata: se ne ho due che presentano statisticamente la stessa percentuale di risposta, diciamo il 60%, i 6 pazienti su 10 che rispondono al primo non sono sempre gli stessi 6 su 10 che rispondono al secondo. Ma se la schizofrenia rappresenta una malattia presente nell’1% della popolazione, ce ne sono altre ben più frequenti, sebbene non altrettanto devastanti: i disturbi d’ansia, i disturbi depressivi, il disturbo bipolare che interessano una percentuale nettamente più alta della popolazione e sono purtroppo in continuo aumento. In questi casi, ancor più che in malattie come la schizofrenia, vediamo un’eterogeneità di presentazione clinica che richiede un’eterogeneità di trattamenti; anche qua, a seconda di come la malattia si presenta, dei sintomi con i quali si manifesta, del contesto in cui la persona vive, possiamo scegliere tra una terapia farmacologica, una più psicologica o una combinazione dei due interventi, e poi adattare il trattamento scelto proprio a quel paziente. I dati a disposizione sono ancora molto limitati, ma stiamo facendo sempre più ricerche per far sì che il miglior trattamento venga trovato immediatamente».

Non è così semplice, quindi…

«In realtà abbiamo molti interventi a disposizione, potremmo usarne anche di più, però non ci lamentiamo: interventi farmacologici, psicologici, sociali. Ovviamente non si può rischiare che ogni psichiatra faccia quel che gli pare in base a opinioni personali nate magari da uno sbaglio ripetuto nel tempo o da un’idea basata su dati scientificamente molto scarsi. Per i trattamenti che decidiamo di somministrare è necessario che esistano evidenze sul fatto che funzionino bene o che comunque, nel complesso di tutti quelli a disposizione, abbiano un rapporto positivo tra rischio e beneficio, perché altrimenti le idee non supportate dai dati diventano ideologia. Bisogna far di tutto per cercare la terapia migliore per il paziente nelle particolari condizioni in cui si presenta, perché anche per una stessa persona, a seconda del momento e del contesto, può essere più indicata una terapia rispetto a un’altra. In psichiatria non è così semplice come, magari, in medicina interna per un paziente con ipertensione. In psichiatria c’è una variabilità estrema nei modi con cui una malattia si presenta… e purtroppo c’è anche molta variabilità tra noi psichiatri, ci sono orientamenti diversi, anche se oggi siamo sempre di più a riconoscere che in tutti c’è del buono. È comprensibile che qualcuno si voglia specializzare, ma secondo me più si mantiene la mente aperta e più che ci manteniamo in grado di offrire ai nostri pazienti il meglio dello spettro dei trattamenti che abbiamo a disposizione, non quelli che ci piacciono di più. Serve la voglia di migliorarsi, la capacità di avere empatia, di immedesimarsi nel paziente e di volergli garantire il miglior trattamento possibile, perché a volte noi abbracciamo un’ideologia, poi facciamo le guerre per difenderla e magari poi nella pratica non riserviamo sufficiente tempo alla povera persona che viene e ha bisogno di un trattamento.

Ma come è possibile concretizzare questo tipo di approccio con risorse probabilmente limitate? Sono adeguati, a questo proposito, gli standard previsti?

«Sono tra i primi a ritenere che le risorse dovrebbero essere aumentate, ma anche a ritenere che quelle che abbiamo non sono pari a zero. Ho lavorato per 12 anni negli Stati Uniti, dove pagherebbero oro per avere quanto a noi viene fornito dal servizio pubblico, che ci mette a disposizione un numero di medici, infermieri, psicologi non elevatissimo ma neanche da buttar via. Quindi qualche risorsa c’è, e comunque quelle che abbiamo devono essere usate al meglio in termini che tengano conto della realtà. Per esempio, garantire la psicoterapia individuale nel servizio pubblico è difficile perché richiede molto tempo, 45 minuti la settimana minimo con un terapeuta altamente specializzato, però una psicoterapia di gruppo, che mette insieme 20 pazienti, è un intervento che in certi tipi di malattia può andare altrettanto bene e comunque è spesso più efficace di interventi alternativi. È vero che ci potrebbe essere una situazione ottimale, però tra il niente e il perfetto nel mezzo c’è il buono, l’accettabile, il soddisfacente…».

Si tratta insomma di ottimizzare…

«Infatti, bisogna cercare intanto di ottimizzare il nostro lavoro di operatori della salute mentale e acquisire più conoscenze per poi disporre di un numero di strumenti sempre maggiore da offrire ai nostri pazienti. Sono d’accordo nel dire che la psichiatria è una cenerentola rispetto ad altre branche della medicina, però le risorse che abbiamo vanno utilizzate al meglio. Nessuno ha la bacchetta magica ma, per esempio, la personalizzazione delle cure non necessariamente determina un aumento del consumo di risorse, anzi. Se uno psichiatra conosce bene i farmaci e li usa al meglio, riesce a curare i pazienti in tempi più brevi, con meno effetti collaterali, meno rischi di sospensione delle terapie e quindi alla fine con un alleggerimento del lavoro. Chiaramente se uno psichiatra dice “io sono contrario ai farmaci”, però poi li usa e li usa male, inevitabilmente il decorso della malattia peggiora, il paziente non riceve un buon servizio e molte risorse vengono sprecate…».

Ma alla fine chi è che coordina? Chi è che valuta il buon risultato, le performance, e mette anche d’accordo le varie anime che ci sono anche tra voi colleghi?

«È una questione complessa. Occorrono anzitutto indicatori scientifici di qualità e di esito, sono assolutamente indispensabili. Gli psichiatri di solito sono un po’ dubbiosi su questi aspetti: in effetti può apparire molto riduttivo misurare la qualità del lavoro con specifici indicatori, però è ancora più riduttivo non misurarla per niente o misurarla solo sulla base delle parole che uno può andare a proclamare. Occorre quindi, per esempio, cominciare a misurare sia la soddisfazione degli utenti che il numero degli eventi avversi come i  suicidi, mettendo inoltre in rapporto i dati tra loro. In passato si usava come indice di cattiva qualità il numero di Tso, i trattamenti sanitari obbligatori, ma questa è una variabile che vista da sola non dice niente, perché se in un servizio, per motivi ideologici, non vengono mai fatti Tso ma quei pazienti si suicidano tutti o uccidono qualcuno, questo non è certo un indice positivo. Se invece il servizio riesce a fare pochissimi Tso, non succedono incidenti e la qualità di vita è ottima, il servizio e’ eccellente. Ovviamente bisogna stare attenti a far sì che ognuno non suggerisca gli indicatori che poi gli fanno far bella figura, perché alla fine questo non è un sistema per dare un voto bello o brutto, ma uno strumento per capire dov’è che possiamo migliorare. Spesso ci s’irrigidisce molto quando si viene controllati, ma penso che la situazione ottimale sia quella in cui ognuno diventa il controllore di se stesso: quindi non è che voglio paragonare la durata delle degenze di aree periferiche, per esempio, con la durata delle degenze a Firenze che è una metropoli con una popolazione diversa da quella delle zone di campagna, dove magari ci sono malattie più gravi, però possiamo paragonare le degenze fiorentine di quest’anno con quelle del prossimo».

C’è, a questo proposito, diversità di incidenza della malattia mentale nelle diverse realtà?

«Dipende molto dal tipo di malattia. Ce ne sono alcune altamente biologiche, per cui la prevalenza cambia poco; altre risentono invece molto dell’ambiente e del contesto in cui uno vive, dei maggiori o minori fattori di stress presenti in una zona rispetto a un’altra. Per noi è un po’ difficile valutare queste variabili, perché come centro di riferimento terziario vediamo anche molti pazienti da fuori Siena e da altre regioni, anche se da giugno 2011 siamo entrati in un unico dipartimento e quindi abbiamo sia una visione locale, sul territorio, che una visione che deriva dall’attività di centro di alta specializzazione. È un altro punto su cui vale la pena discutere, domandarci quante risorse devono essere allocate a strutture superspecialistiche e quindi accentrate, che magari servono anche a contenere i costi, e quante devono essere allocate a strutture dislocate sul territorio e probabilmente più in grado di fare attività di prevenzione o attività capillare dove i pazienti vivono. Occorre trovare un giusto bilancio: anche qui si toccano sensibilità che accendono gli animi, ma un buon equilibrio è indispensabile perché anch’esso porta a migliorare la qualità delle cure».

Un modello innovativo a livello nazionaleUn modello unico non solo in Toscana, ma anche a livello nazionale per le sue caratteristiche di completezza e globalità: questa la novità rappresentata dal Dipartimento interaziendale di salute mentale (Dism), operativo a Siena dalla fine del giugno scorso. Sul fronte dipendenze, per fine anno è inoltre probabile l’integrazione con i Sert territoriali.

«Il Dism – spiega il direttore, professor Andrea Fagiolini – mette insieme le risorse della psichiatria, psicologia clinica e neuropsichiatria infantile universitarie con i corrispondenti servizi di salute mentale della Azienda Ospedaliera Universitaria Senese e della Asl 7, allargati all’area infermieristica e tecnico sanitaria (logopedisti, fisioterapisti e riabilitatori). L’obettivo è quello di assicurare agli utenti la continuità terapeutica con percorsi assistenziali ben definiti, senza doppioni o rinvii di responsabilità, e con l’utilizzo ottimale di tutte le risorse disponibili per il buon esito degli interventi. Vogliamo cioè perseguire il coordinamento e l’integrazione dei servizi afferenti, la presa in carico multiprofessionale del paziente e l’integrazione di tutte le competenze professionali, scientifiche e formative. Tra gli obiettivi principali abbiamo inoltre quello di favorire l’accordo con gli altri servizi sanitari e con i servizi sociali, il raccordo con la comunità e le sue istituzioni, la continuità e unitarietà delle cure, il miglioramento dell’efficienza e efficacia del sistema anche attraverso l’integrazione tra ospedale e territorio e la creazione di percorsi assistenziali condivisi e standardizzati. Vorremmo cioè favorire la crescita di una cultura multidimensionale di comprensione, cura e riabilitazione del disagio e del disturbo, aperta a tutti i contributi ed a tutte le verifiche di invalidazione, nell’obiettivo dell’efficacia degli interventi di prevenzione e cura. E, soprattutto, vogliamo utilizzare le risorse che abbiamo a disposizione al meglio, inteso come meglio per i pazienti e non necessariamente meglio perché più vicino ai nostri ideali. Lo psichiatra, psicologo, infermiere, educatore, riabilitatore eccetera sono figure che di solito fanno il loro lavoro con passione e dedizione, ma sono anche persone che devono sempre tenere presente di non essere a casa loro. In alcuni ospedali, capita talvolta che i pazienti siano trattati come “ospiti”, più o meno graditi,  di coloro che vi lavorano. Nel nostro Dism, vorremmo che i “padroni di casa” fossero piuttosto i pazienti e non chi è pagato per prestare un servizio in una struttura che certo non gli appartiene. Certamente, una delle nostre più grandi ricchezze è rappresentata dalla professionalità degli operatori, che proprio in virtù della stessa si stanno riconoscendo negli obiettivi ed ideali del Dism. Il percorso non è stato né sarà privo di ostacoli, perché a volte è incompatibile e si scontra con abitudini acquisite nel tempo, che può essere necessario modificare. Ma la strada intrapresa è quella buona e secondo me i risultati saranno sempre migliori».

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