Toscana
Psichiatria: amministratore di sostegno o emarginatore dei familiari?
«L’amministratore di sostegno è una figura istituita per quelle persone che, per effetto di un’infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trovano nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi». Inizia così, sul sito internet del Ministero della Giustizia, la scheda informativa relativa a questo istituto, così come previsto dalla legge 6 del 2004 che lo ha profondamente riformato.
Anziani e disabili, ma anche alcolisti, tossicodipendenti, detenuti e malati terminali possono chiedere mediante ricorso – anche se minori, interdetti o inabilitati – che «il giudice tutelare nomini una persona che abbia cura della loro persona e del loro patrimonio». Ma tale richiesta – che non necessita dell’assistenza di un avvocato – può anche essere presentata dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado (relativo a cugini, pronipoti e prozii), dagli affini entro il secondo grado (suoceri, generi e nuore, cognati), dal tutore o curatore e dal pubblico ministero. Tuttavia la scheda precisa anche che «i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, se sono a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno, sono tenuti a proporre al giudice tutelare il ricorso o a fornirne comunque notizia al pubblico ministero».
Ed è proprio quest’ultima possibilità che ha consentito il verificarsi di un paio di casi di cui siamo venuti a conoscenza, entrambi relativi a pazienti psichiatrici fiorentini e caratterizzati dalla nomina di un amministratore di sostegno al di là della volontà delle loro famiglie, nonostante che queste avessero sempre avuto a cuore la salute ed il bene dei loro congiunti. In sostanza, dietro la richiesta di servizi psichiatrici e assistenti sociali che avevano in carico i suddetti pazienti, il giudice tutelare avrebbe operato in entrambi i casi una scelta che sembrerebbe andar contro quanto prevede la legge stessa, laddove indica di preferire come amministratore di sostegno, nell’ordine, il coniuge che non sia separato legalmente, la persona stabilmente convivente, il padre o la madre, il figlio, il fratello o la sorella, il parente entro il quarto grado, il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata. C’è però un «se possibile» che di fatto lascia una discrezionalità forse troppo ampia, che alla fine, probabilmente anche per un certo scarico di responsabilità, si indirizza fatalmente verso la ratifica del quadro fornito dai professionisti interessati rispetto a quello presentato dai familiari.
La delicatezza della questione non è di poco conto soprattutto se si tiene conto del fatto che il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno deve contenere tutta una serie di indicazioni decisamente «sensibili», quali la durata dell’incarico, che può essere anche a tempo indeterminato, il suo oggetto, gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario e, viceversa, quelli che quest’ultimo può compiere solo con l’assistenza del primo, la periodicità con cui l’amministratore deve riferire al giudice circa l’attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario e infine, quel che più conta, i limiti, anche periodici, delle spese che l’amministratore di sostegno può sostenere con utilizzo delle somme di cui il beneficiario ha o può avere la disponibilità. In entrambi i casi di nostra conoscenza, non a caso, tale disponibilità economica era presente.
Sebbene la legge preveda espressamente che gli operatori dei servizi pubblici o privati che hanno in cura o in carico il beneficiario non possono ricoprire le funzioni di amministratore di sostegno, si crea però di fatto un meccanismo in cui i familiari interessati vengono emarginati e privati anche della possibilità di una cogestione del patrimonio comune, casa compresa. È quanto successo, in uno dei due casi, alla sorella del beneficiario, amareggiata e sconcertata per essere stata esclusa insieme a tutta la famiglia dalla possibilità di affiancare il fratello nel percorso di cura. E pur non intendendo affatto mettere in dubbio la buona fede del giudice tutelare e degli operatori in questione, non possono non emergere dubbi sulla gestione della vicenda, nata in seguito alla morte del padre dei due fratelli, che ha portato anche a richiedere, pochi mesi dopo la presa in carico, una visita per l’incremento dal 75 al 100% dell’invalidità del soggetto assistito, con possibile perdita dell’idoneità al lavoro in cui, pur con tutti i suoi limiti, era impegnato. Fattore scatenante dell’altro caso è stato invece un contenzioso tra i tre fratelli del disabile e la struttura psichiatrica di riferimento in merito alle nuove modalità di assistenza loro prospettate (che di fatto si configuravano come un forte allentamento, se non addirittura una rinuncia, della presa in carico).
In casi come quelli citati (ma sembra che ce ne siano anche altri, secondo quanto ci riferisce il Coordinamento toscano delle associazioni per la salute mentale, che intende approfondire il tema), il circolo che si crea tra servizi psichiatrici, assistenti sociali, giudice tutelare e amministratore di sostegno chiude di fatto fuori la famiglia del disabile anche quando in quest’ultima è chiaramente presente un rapporto affettivo senza secondi fini nei confronti del proprio congiunto. Problemi di rapporto dei familiari con i servizi o eventuali giudizi di inadeguatezza dei rapporti interfamiliari non sono certo sufficienti a giustificare una simile emarginazione, anche per le ripercussioni negative che questa potrebbe avere sugli stessi disabili che almeno a parole si vorrebbero invece tutelare. Tenendo anche conto del fatto che, secondo quanto previsto dalla legge, la scelta dell’amministratore di sostegno deve avvenire »con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario».