Toscana
Province, ipotesi a confronto
E’ di questi ultimi giorni la proposta del PDL sul riordino delle province toscane. Con questa siamo arrivati a cinque. Due sono le logiche che si confrontano: dall’alto e dal basso. La prima parte dalla esperienza di programmazione regionale e considera la suddivisione della Toscana in tre aree vaste uno strumento di programmazione regionale. La seconda parte dal basso e vede la provincia come un importante strumento per lo sviluppo locale. Specialmente in questi momenti, avere una provincia sembra come l’ancora di salvezza nel mare delle incertezze economiche. Ma, come molti hanno notato, è inutile pensare ai contenitori se ancora non è chiaro il contenuto. In altri termini, la delimitazione provinciale ha senso diverso a seconda delle deleghe che si assegnano alle province. Queste sono limitate a pianificazione territoriale, trasporti e programmazione scolastica, senza tenere conto del fatto che gli organi di governo della provincia saranno nominati con una elezione di secondo grado dei consigli comunali. Tuttavia occorre tenere presente che, almeno in teoria, la provincia si porta dietro tutti gli uffici che hanno una loro definizione a livello provinciale, come questura, prefettura etc. anche se, in caso di aree estese, si può pensare che vi siano mantenute sedi decentrate. E questi uffici, oltre ai servizi che forniscono, significano posti di lavoro stabili che, essendo finanziati con fondi statali, fanno parte di quella base economica che sostiene tutta l’economia urbana. Insomma, nel dubbio, sembra pensino in molti, avere una provincia è meglio che non averla. L’idea che collaborando e mettendo insieme le forze si possa ottenere di più non sembra sia molto popolare.
Ed ecco quindi emergere le varie ipotesi, motivate dal fatto che le soluzioni che derivano dai criteri governativi (almeno 350 mila abitanti e 2500 km quadrati di superficie, e nessuna provincia aggregata con Firenze futura Città metropolitana) nella loro applicazione producono ipotesi assurde, come la provincia da Carrara a Prato con capoluogo Prato.
In questa situazione tutti si sono sentiti autorizzati a fare proposte del tutto al di fuori dai criteri stabiliti dal Consiglio dei Ministri, ed è qui che emergono le due visioni contrapposte.
La prima è quella regionale che vede le province come un ente intermedio organizzato all’interno della programmazione regionale. Tale è ad esempio la proposta del Presidente della Giunta Regionale, Enrico Rossi che aggrega le province toscane in tre aree vaste con i capoluoghi non congruenti con i criteri governativi, ma con una maggiore attenzione alla centralità territoriale. Essi sarebbero Firenze, Pisa e Siena. Tale proposta è in linea con gli atti della programmazione regionale principalmente in materia di sanità. Ricordiamo che la legge regionale 40 del 2005 istituisce gli enti per i servizi tecnico-amministrativi di area vasta (Estav) e definisce l’area vasta, esattamente le tre aree della ipotesi di Rossi, il livello ottimale per la programmazione e gestione integrata dei servizi sanitari. Sempre l’area vasta viene successivamente utilizzata dalla Regione quale ambito per i Patti per lo sviluppo locale (Pasl), per l’individuazione delle priorità per lo sviluppo di un territorio interprovinciale, per rafforzare il ruolo delle comunità e delle istituzioni locali e proporle come interlocutore unitario rispetto al livello regionale.
Ma, tradotta nel contesto del riordino provinciale, la proposta produce anche altri effetti. Essa definisce due aree forti in Toscana, quella centrale, quella della costa. È interessante notare che le due aree avrebbero dimensione di popolazione simile e ambedue vedrebbero aumentare il loro potere.
Firenze, in virtù della città metropolitana vedrebbe le sue capacita istituzionale aumentare anche in questioni infrastrutturali come ad esempio l’aeroporto, mentre una unica istituzione per l’area costiera potrebbe contribuire, nel futuro, a farne l’area portante dello sviluppo regionale, assommando il porto, un aeroporto internazionale, una università che recentemente è stata valutata come una delle migliori in Italia, e altre due università (Normale e S. Anna) a livelli di eccellenza. La proposta ha ovviamente sollevato enormi critiche. Prima di tutto vengono le province con i capoluoghi di maggior popolazione, Prato e Livorno. Nel primo caso la Provincia ha circa venti anni e ritornare sotto Firenze sembrerebbe un arretramento come quando nel 1927 il Circondario pratese fu abolito dopo solo due anni di vita. Nel secondo caso, cedere a Pisa la provincia non avrebbe senso avendo Livorno una popolazione ben maggiore. Poi c’è il caso della Provincia di Arezzo vicinissima a soddisfare i criteri governativi, la quale con la proposta di Rossi vedrebbe la perdita della provincia e contemporaneamente quella del capoluogo. Lo stesso avverrebbe con Lucca, antica capitale, senza contare il fatto che Firenze il cui potere aumenterà con la città metropolitana, si vedrebbe ancor più rafforzata con l’aggregazione di Pistoia e Prato, del resto già approvata dal Consiglio regionale con la Deliberazione 130 del 2000 che istituiva appunto l’area metropolitana come l’unione delle tre province.
Questo problema ha portato probabilmente alla formulazione di una variante alla proposta Rossi, la proposta B, come l’ha chiamata l’Assessore Riccardo Nencini. Essa consiste nel limitare la Città metropolitana di Firenze ai comuni più vicini alla città ed assegnare il resto dei comuni alla Provincia di Pistoia e Prato. Questa variante, potrebbe ottenere consensi tenendo conto dell’antica avversione dei popoli toscani al capoluogo regionale. In ogni modo, la proposta delle tre o quattro province, cosiddette di area vasta, potrebbe svuotare il ruolo delle province, ed è per questo che l’Upi Toscana sembra muovere delle critiche, accogliendo le richieste che vengono dal basso, e chiedendo, come del resto l’Uncem, cinque province più la città metropolitana. Nello stesso tempo l’opposizione si inserisce nel dibattito, cercando di mettere delle zeppe dentro al disegno regionale. Da qui la recente proposta del Pdl che sembra poi essere anche quella dell’Upi. Costituire cinque province: Lucca e Massa-Carrara, Pisa e Livorno, Prato e Pistoia, Grosseto e Siena, e Arezzo, più Firenze che si trasforma in città metropolitana. I capoluoghi non sono stati definiti, ma si suppone che rispondano ai criteri del decreto governativo e quindi sarebbero Lucca, Livorno, Prato, Grosseto, ed ovviamente Arezzo e Firenze.
Questa proposta risponde maggiormente alla logica della provincia come strumento dello sviluppo locale o comunque qualcosa di simile alla attuale. Recepisce le spinte dal basso, minimizzando le perdite e massimizzando i vantaggi, politici si intende. Essa scontenta principalmente Siena e Pisa, ma fa felici: Prato, Livorno, Arezzo, Lucca e Grosseto. Per inciso si può notare come Siena e Pisa sono città dove l’opposizione non ha mai avuto risultati positivi, mentre Prato, Arezzo, Grosseto e Lucca hanno visto alcune volte l’opposizione vincente. Se inoltre consideriamo la popolazione dei comuni capoluogo come la più interessata alla decisione, e, banalmente, si sommano gli abitanti, questa seconda proposta otterrebbe il consenso di poco meno di un milione di abitanti (le popolazioni dei futuri comuni capoluogo) e il dissenso di circa 150 mila abitanti (Pisa e Siena), mentre quella di Rossi, almeno nella versione A, e sempre con lo stesso criterio, avrebbe mezzo milione circa di consenso e 600 mila di dissenso. Nella versione B, guadagna il consenso della popolazione di Prato ma perde quello di Firenze e quindi diminuisce la sua probabile performance politica.
Quali le prospettive, visto anche che i tempi sono stretti? In questa situazione, si può prevedere che la proposta dell’opposizione, specie se sarà condivisa dall’Upi, abbia maggiori possibilità di passare, anche se il peso politico della Regione, in questa partita, è difficile da valutare. Quale delle due logiche sia la migliore è difficile da dirsi, tutto sta nel modo in cui le future province funzioneranno: se come semplici enti di programmazione dell’alto o come enti intermedi di governo politico. La possibilità di trovare una mediazione è debole e forse potrebbe passare attraverso l’assicurazione che il progetto di area vasta lasci la possibilità di un decentramento e di una policentricità, come sembra auspicare il recente documento della Cgil, anche se, convincere i campanili della bontà di questa idea sembra impresa ardua.
*Ricercatore, Dipartimento di Urbanistica e pianificazione del territorio (Università di Firenze)