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Prolusione del card. Bagnasco all’Assemblea Cei
nel clima ancora vivissimo della solennità del Corpus Domini, autentica festa di popolo, saluto tutti e ciascuno con le parole dell’Apostolo Paolo: Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo (Ef 1,2). E’ sempre una grande gioia ritrovarsi in assemblea plenaria. E infatti non ci stupisce che, nel dopo-Concilio, da varie parti si sia dato un effettivo risalto al profilo che identifica questo incontro collegiale come attuazione e sviluppo dell’affectus collegialis, senza mai omettere come esso non sia surrogabile da altri organismi delle stesse Conferenze episcopali (cfr. Direttorio per il ministero episcopale, nn. 28 e 31). Se il pensiero di ciascuno di noi mai si stacca dalla Chiesa che la Provvidenza di Dio gli ha affidato, una volta che siamo qui riuniti, l’esercizio congiunto di alcuni atti del ministero episcopale serve a realizzare quella sollecitudine di ogni Vescovo per tutta la Chiesa che si esprime significativamente nel fraterno aiuto alle altre Chiese particolari, ( ) e si traduce altresì nell’unione di sforzi e di intenti ( ) per incrementare il bene comune e delle singole Chiese (Giovanni Paolo II, Apostolos suos, n. 13).
Nel corso di questa Assemblea, affronteremo una serie di questioni di vitale importanza per le nostre diocesi e per la Chiesa che è in Italia. Nella trattazione dei vari argomenti, e nell’assunzione delle scelte che avvertiremo opportune e necessarie, non ci abbandonerà mai la coscienza di essere un segno eloquente dell’amore di Dio per il nostro popolo. Infatti l’unità dell’episcopato è uno degli elementi costitutivi dell’unità della Chiesa (ibidem, n. 8).
Lo Spirito Santo ci dia di vivere questi giorni nella letizia e nella docilità alla grazia, perché tutto quello che pensiamo, facciamo e decidiamo sia a gloria di Dio, per la vita del nostro popolo e della nostra Nazione.
1. Vorrei porgere anzitutto il saluto deferente di questa Assemblea al Prefetto della Congregazione per i Vescovi, Cardinale Giovanni Battista Re, che mercoledì mattina presiederà la nostra Concelebrazione Eucaristica in San Pietro.
Salutiamo con molta cordialità il Nunzio apostolico in Italia, l’Arcivescovo Giuseppe Bertello, che è qui con noi e la cui parola avremo tra poco il piacere di ascoltare.
Salutiamo con affetto e ringraziamo per la loro fraterna presenza i confratelli Vescovi rappresentanti di numerose Conferenze Episcopali d’Europa.
Diamo un benvenuto cordiale ai nuovi Vescovi che sono entrati nell’ultimo anno a far parte della nostra Conferenza. Confidiamo nel loro impegno solidale e chiediamo al Signore abbondanza di grazie per gli inizi del loro ministero.
Colgo l’occasione, per salutare affettuosamente Mons. Piergiuseppe Vacchelli, che dopo lungo servizio come Sottosegretario della CEI e Presidente del Comitato per gli interventi caritativi a favore del Terzo Mondo, sabato scorso, è stato nominato Segretario Aggiunto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e Presidente delle Pontificie Opere Missionarie, con dignità di arcivescovo. A Mons. Piergiuseppe vada il mio augurio più caro, con tanta riconoscenza per la prezioso servizio svolto per la CEI, assicurandogli il ricordo nella preghiera.
Uno speciale saluto di riconoscenza e di vicinanza spirituale vogliamo rivolgere ai Confratelli che hanno lasciato negli ultimi dodici mesi la guida delle rispettive Diocesi e che in modo nuovo continuano a lavorare con noi per il bene delle nostre Chiese.
Un’affettuosa e riconoscente memoria facciamo dei fratelli Vescovi che hanno di recente terminato la loro esistenza terrena. Domandiamo al Padre ricco di misericordia, che hanno fedelmente servito, di accoglierli nella pienezza della vita, mentre confidiamo nella loro intercessione, per noi e per il popolo a cui si sono dedicati.
2. Il nostro pensiero va anzitutto al Santo Padre Benedetto XVI, che anche nel corso della presente Assemblea ci farà dono della sua visita e della sua parola. Naturalmente non ci sfugge che tale beneficio ci viene dalla prossimità geografica delle nostre sedi a quella di Pietro. Prossimità che per noi è, prima di ogni altra cosa, impegno di incondizionata vicinanza e responsabilità di amore.
Tutti abbiamo ancora sotto gli occhi le immagini straordinarie del viaggio apostolico negli Stati Uniti d’America, svoltosi dal 15 al 21 aprile scorso. È nota la circostanza che ha generato la decisione di questa Visita: il bicentenario della elevazione a metropolìa della prima diocesi statunitense, Baltimora, e della fondazione delle sedi di New York, Boston, Filadelfia e Louisville. Ma a tutti è risultato chiaro che tale visita è stata come un grande, straordinario incontro con tutto il popolo americano. Le voci che di là ci sono giunte, hanno tutte raccontato di un viaggio riuscito in ciascuno dei suoi aspetti e dei suoi momenti. L’ombra di Pietro (cfr At 5,15) si è rivelata benefica anche lì per quanti si sono in un modo o nell’altro avvicinati al messaggero di Dio. Il Papa ha sorpreso perché gli è stato consentito di manifestare se stesso, e di esplicare la sua missione di riconciliatore e di seminatore della speranza, sparigliando in un crescendo continuo le previsioni, in una situazione che all’inizio si annunciava molto delicata.
Un ruolo speciale l’hanno avuto le parole da lui spese, in cinque diversi momenti, a proposito del noto argomento degli abusi sessuali, sul quale probabilmente si era maggiormente attestata l’attesa della stampa. Ma il Papa non si è fatto desiderare: aveva da poco lasciato il suolo di Roma che, già parlando con i giornalisti che condividevano il suo stesso volo, ha usato espressioni di intensa umanità ma anche di esemplare chiarezza. Quell’«Io mi vergogno» con il quale s’è caricato dell’umiliazione e del dolore della Chiesa tutta per lo scandalo causato dai sacerdoti accusati di pedofilia, è stato come l’inizio della rinascita, il riavvio di un cammino nuovo, che ha finito per coinvolgere le stesse persone a suo tempo vittime degli scandali.
Nel medesimo dialogo informale con i giornalisti al seguito, Benedetto XVI aveva tenuto ad esprimere da subito la sua ammirazione per l’esperienza di libertà che fin dalle origini è in atto in quella grande Nazione. Dove lo Stato è «volutamente e decisamente laico, ma proprio per una volontà religiosa, per dare autenticità alla religione». Che il cardinale Joseph Ratzinger trovasse «affascinante» l’esperimento americano già lo sapeva chi aveva avuto modo di conoscere nel tempo il suo pensiero e i suoi libri. Citiamo per tutti: Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Mondadori, 2004. Era qui, ad esempio, che si avanzava un rilievo significativo all’indirizzo dell’Europa, ossia che il resto dell’umanità vede con allarme «la profanità assoluta che si è andata formando in Occidente», e che è qualcosa «di profondamente estraneo» alle loro culture (ibidem, pag. 72). Ma dinanzi al magistero dispiegato nel corso del viaggio americano, è possibile cogliere meglio le ragioni profonde della sua stima per una Nazione dove «i princìpi che governano la vita politica e sociale sono intimamente collegati con un ordine morale», e poggiano su una «verità evidente per se stessa: che tutti gli uomini sono creati eguali e dotati di inalienabili diritti, fondati sulla legge di natura e sul Dio di questa natura ( ). Lungo quel processo, che ha plasmato l’anima della nazione, le credenze religiose furono un’ispirazione costante e una forza orientatrice» (Discorso alla Cerimonia di Benvenuto, Casa Bianca, 16 aprile 2008).
Ma il Papa non ha taciuto i rischi che corre quella Chiesa, come in genere le altre Chiese pellegrine in Occidente: rischi legati alla sottile influenza del secolarismo e del materialismo che depotenziano i credenti nella loro testimonianza pubblica. E qui importante si è rivelato il discorso pronunciato davanti ai Vescovi americani, nel Santuario nazionale dell’Immacolata Concezione di Washington, lo stesso 16 aprile; e ancor più, se possibile, le risposte date alle loro domande, con la denuncia dell’«apostasia silenziosa» in cui cadono fatalmente molti cattolici, quando recidono il legame con la fede ecclesiale autentica. «Il Vangelo ha spiegato il Papa deve essere predicato e insegnato come un modo di vita integrale, che offre una risposta attraente e veritiera, intellettualmente e praticamente, ai problemi umani reali». E aggiungeva: «La dittatura del relativismo, alla fin fine, non è nient’altro che una minaccia alla libertà umana, la quale matura soltanto nella generosità e nella fedeltà alla verità».
3. Quasi a voler prevenire le obiezioni, è stato il Papa stesso, nel dialogo con i giornalisti, a precisare: «Certamente in Europa non possiamo semplicemente copiare gli Stati Uniti: abbiamo la nostra storia. Ma dobbiamo tutti imparare l’uno dall’altro». E così ci indicava lo snodo attraverso il quale sarà bene non lasciare troppo rapidamente alle spalle questo magistero, in quanto può aiutare noi europei a metter meglio a fuoco il «concetto positivo di laicità», per il quale lo Stato è concepito al servizio della società civile, nelle diverse forme associative che ne esprimono il pluralismo. Uno Stato che, per questo, non dovrà neutralizzare le religioni, perché anch’esse sono chiamate, come le scuole filosofiche e le tradizioni etiche, ad abitare le società pluraliste e ad offrire argomentazioni pubbliche su cui avverrà il confronto e il riconoscimento reciproco. Esprimere liberamente la propria fede, partecipare in nome del Vangelo al dibattito pubblico, portare serenamente il proprio contributo nella formazione degli orientamenti politico-legislativi, accettando sempre le decisioni prese dalla maggioranza: ecco ciò che non può mai essere scambiato per una minaccia alla laicità dello Stato. Né in America né in Europa. La Chiesa non vuole imporre a nessuno una morale religiosa: infatti essa enuncia da sempre insieme a principi tipicamente religiosi i valori fondamentali che definiscono la persona, cuore della società. Proprio perché fondativi, essi sono di ordine naturale, radicati cioè nell’essere stesso dell’uomo, anche se il Vangelo li assume e rilancia illuminandoli di luce ulteriore e piena.
Se poi si avrà cura di collegare queste recentissime affermazioni papali con l’elaborazione rintracciabile nell’enciclica Deus caritas est, in particolare nei nn. 28 e 29, allora si avrà un’articolazione ancor più persuasiva della proposta cristiana.
La sostanza di questo ragionamento, si ricorderà, era già sottesa nella famosa allocuzione svolta da Benedetto XVI a Ratisbona, il 12 settembre 2006, ma è stata come in filigrana riproposta nell’intero discorso tenuto all’Assemblea generale delle Nazioni unite, visitata nell’ambito dello stesso viaggio americano in occasione del 60° anniversario della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo. Quando ai diritti umani si nega la loro intrinseca verità, per la pretesa di adattarli continuamente a contesti culturali, etnici e religiosi differenti, o di ridurli al rango di procedimenti metodologici, si causa inevitabilmente la loro erosione interna. Perché mai infatti dovrebbero conservare una loro forza vincolante tante proclamazioni internazionali, una volta che i diritti lì sanciti fossero ridotti a «deboli proposizioni staccate dalla dimensione etica e razionale» (Discorso all’Assemblea generale della Nazioni Unite,18 aprile 2008)? Per affermare i diritti, occorre un loro assoluto radicamento nella giustizia, come occorre un continuo discernimento tra il bene e il male, così da orientare l’agire degli Stati come degli individui.
Ma perché un simile processo si inneschi, è necessario il riconoscimento del valore trascendente e, in ultima istanza, religioso proprio di ogni persona, «il punto più alto del disegno creatore per il mondo e la storia». È perciò inconcepibile aggiungeva il Papa «che dei credenti debbano sopprimere una parte di se stessi la loro fede per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti ( ). Non si può limitare la piena garanzia della libertà religiosa al libero esercizio del culto; al contrario, deve essere tenuta in giusta considerazione la dimensione pubblica della religione e quindi la possibilità dei credenti di fare la loro parte nella costruzione dell’ordine sociale» (ibidem). Dove il richiamo alla libertà religiosa, che è il primo dei diritti e quello che li prova tutti, è stato richiamato con vigore dal Papa. Purtroppo tale diritto stenta ancora ad essere riconosciuto e rispettato in non pochi luoghi del mondo: appena un mese prima aveva celebrato in San Pietro una santa Messa in suffragio dell’Arcivescovo di Mossul dei Caldei, Paulos Faraj Rahho.
È in questo quadro che il Pontefice romano ha riaffermato dall’alto podio il valore stesso dell’Onu, definendolo con le parole del predecessore Giovanni Paolo II: «Centro morale, in cui tutte le nazioni del mondo si sentono a casa loro, sviluppando la comune coscienza di essere, per così dire, una famiglia di nazioni» (ibidem).
4. Il citato discorso all’Onu non tace sulle giuste aspirazioni dei popoli, in particolare di quei Paesi dell’Africa e di altre parti del mondo «che rimangono ai margini di un autentico sviluppo integrale, e sono pertanto a rischio di sperimentare solo gli effetti negativi della globalizzazione» (ibidem). Uno di questi rischi, forse il maggiore, è da qualche settimana con speciale evidenza sotto i nostri occhi. Mi riferisco all’emergenza alimentare che ha tra le sue cause principali l’impennata dei prezzi dovuta all’aumento del costo del petrolio. Solo il prezzo del grano è cresciuto del 130%! Si aggiunga che a causa della siccità c’è stata una riduzione dei raccolti in taluni grandi Paesi produttori, come l’Australia. Oltre che al passaggio di molte zone agricole da colture commestibili a colture destinate alla produzione di biocarburanti.
L’effetto a catena di questi fattori ha portato alcune nazioni a sospendere le esportazioni, di riso in particolare (rincarato del 74%), determinando un’ulteriore scarsità. Tra l’Africa, il Sudest asiatico e il Centro America, questo tsunami silenzioso, a dirla con l’Onu, sta mettendo a rischio la sopravvivenza di almeno 100 milioni di persone, incapaci ormai di provvedere al proprio sostentamento minimo. Intanto, altri 800 milioni di individui già soffrono di denutrizione, al punto che si stima che ogni giorno muoiano 25 mila persone per fame e malattie correlate. Senza dire che in una serie di paesi (l’Egitto, Haiti, Filippine, …) sono già esplose rivolte dovute all’impennata dei prezzi. A questa situazione, si aggiungono non di rado le calamità naturali, come ultimamente il tifone in Birmania e il gravissimo terremoto in Cina.
Su queste tragedie noi siamo stati prontamente informati dal nostro quotidiano Avvenire, che sul crinale internazionale è particolarmente attento (ci piace tra l’altro annotarlo nel 40° anno di fondazione che con profitto sta celebrando). Si sa che l’Onu dal canto suo ha lanciato un appello alla comunità internazionale perché intervenga ad alleviare la crisi con maggiori aiuti e riforme strutturali che già prima urgevano a favore di taluni Paesi meno sviluppati. Alcune nazioni si stanno muovendo, e altre devono farlo, compresa l’Italia. Insomma, deve scattare un’onda di solidarietà concreta, che mobiliti risorse pubbliche ma anche aiuti privati, e mentre si soccorre bisognerà introdurre regole nuove che modifichino le condizioni di ingiustizia. Le nostre comunità parrocchiali, sono certo, non si tireranno indietro, come mai hanno fatto in occasioni delle precedenti crisi.
Ci pare questo l’impegno più immediato, anche a ricordo dei 40 anni della Populorum Progressio, che si sta celebrando con una serie di indovinate iniziative. Certo la situazione del mondo rispetto ad allora è non poco cambiata. Quella che non muta è la condizione di disparità tra Paesi poveri e Paesi ricchi, la povertà inesorabile che questa produce, i conflitti sempre in atto. L’interdipendenza globale è diventata una consapevolezza diffusa, la quale deve però generare uno sviluppo sostenibile, che dà per primo a chi non ha mai avuto.
5. Per i credenti la storia non è mai una sequenza più o meno casuale di fatti; è sempre una storia di salvezza, la quale dà senso e prospettiva ad ogni azione che viene compiuta. Noi sappiamo che, con l’Incarnazione del Verbo, il tempo è stato rivisitato e, gravido di eterno, ha una destinazione prima impensabile. Kairòs, non più solo krònos, dunque. E di tutti i tempi, poi, quello che viviamo è il migliore perché è quello che il Padre, nella sua inesausta scienza d’amore, ha stabilito per noi, e per la misura dei doni che ci ha affidato, chiamandoci al rischio della vita. Questa, in altre parole, è per noi l’ora non del fato ma della Provvidenza, la quale ha un volto e un cuore, quello di Cristo. Un tempo dunque per il quale vogliamo esprimere non il lamento per le difficoltà, ma il ringraziamento perché meraviglioso. Magari è anche meravigliosamente arduo, ma pur sempre accostabile coi nostri passi e con la grazia dello Spirito.
La lettura della storia suggerita dalla fede non impedisce di scorgere i limiti, le contraddizioni e le sfide. Anche se si riscontra una sorta di paradosso: da una parte, un certo gusto del negativo viene propalato quasi con compiacimento, dall’altra, tale sentimento negativo non deve però superare una certa soglia, per non disturbare troppo e non mettere in discussione le opzioni di fondo che si riconducono al presupposto di un progresso messianico. C’è, com’è stata chiamata da qualche esperto, una fenomenologia del peggio che, pur imperversando, non vuole tuttavia fare i conti con se stessa, accontentandosi dei sotto prodotti e delle mezze misure, in quanto corrode ogni valore alto. Se oggi l’umanità ha raggiunto una spiccata coscienza di sé e della dignità intrinseca ad ogni uomo, dall’altra la controversia sull’umano sta raggiungendo il punto di maggiore acutezza, perché sfidata da concezioni fortemente riduttive e immanentistiche. L’uomo, finalmente sollevato dalla schiavitù del lavoro e della fatica, e certo non più asservito alla classe o alla razza, si scopre però funzionale al consumo, se non anche allo spettacolo. E così la società opulenta, mentre lo seduce con il gioco delle apparenze, lo svuota dall’interno, e sempre più lo spinge a concepirsi come un’isola tra le isole, un mondo individualistico e chiuso, per cui i rapporti con gli altri sono spesso sentiti in termini mercantili, anziché svolgersi nel segno della gratuità, del dono, della solidale integrazione. Nell’omelia della Messa che ha concluso il toccante viaggio apostolico a Genova, il Papa annotava che dall’esperienza del Dio cristiano «deriva una certa immagine di uomo, cioè il concetto di persona. Se Dio è unità dialogica, essere in relazione, la creatura umana, fatta a sua immagine e somiglianza, rispecchia tale costituzione: essa pertanto è chiamata a realizzarsi nel dialogo, nel colloquio, nell’incontro» (Omelia della Messa in Piazza della Vittoria a Genova, 18 maggio 2008).
Qual è il possibile riscatto? Io credo, noi crediamo che non ci sia altra via che quella di una rinnovata opera educativa, che sarà tale se avrà il coraggio di non obliterare il costo degli ideali e se non rinuncerà alla prossimità che sa farsi compagnia. Il Papa, incontrando domenica 4 maggio i 100 mila dell’Azione Cattolica, ha parlato ancora una volta di «emergenza educativa» (cfr. Discorso all’Incontro con l’Azione Cattolica Italiana, 4 maggio 2008). Nel lungo periodo della Pasqua, abbiamo più volte riflettuto sulla scansione del rito ebraico fondato sulla narrazione del legame fra le generazioni, quella dei padri e quella dei figli. Dove la tradizione è una dimensione fondamentale del presente, come dicevamo al Convegno di Verona. Ebbene, questa dinamica è il paradigma vero di ogni rapporto educativo che è testimonianza che i padri danno ai figli, che gli educatori danno ai più giovani. E l’emergenza educativa che cosa è, se non l’interruzione, lo spezzarsi di questo racconto che una generazione deve fare all’altra? Annotava di recente il Papa, commentando il tempo della caduta dell’Impero romano: «Viviamo anche noi in un tempo di incontro delle culture, di pericolo della violenza che distrugge le culture, e del necessario impegno di trasmettere i grandi valori e di insegnare alle nuove generazioni la via della riconciliazione e della pace» (Discorso all’Udienza del Mercoledì, 12 marzo 2008).
Non ci sfugge peraltro la sottigliezza del problema educativo odierno: se educare non è mai stato facile, oggi lo è ancor meno perché non pochi educatori dubitano della possibilità stessa di educare, e dunque rinunciano in partenza al proprio compito. Parlando al capitolo generale dei Salesiani, Benedetto XVI osservava: «Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita» (Discorso ai Partecipanti al Capitolo generale della Società di San Giovanni Bosco, 31 marzo 2008). Insomma, qui siamo. Ma qui, sugli spalti di una ricomprensione della missione educativa che ci tocca in quanto Chiesa, vorremmo, se così si deciderà, per un po’ soffermarci, come in passato s’è fatto per altre dimensioni dirimenti del nostro essere Chiesa.
6. Se, come Vescovi, a qualcuno non smettiamo mai di pensare, e se qualcuno è particolarmente vicino al nostro cuore, questi sono i giovani. Per loro sappiamo di non fare mai abbastanza. Specialmente in questo momento storico, i giovani sono i primi bersagli della cultura nichilista che li invita, li incoraggia, li sospinge a coltivare soltanto le passioni tristi. È una cultura che instilla in loro la convinzione che nulla di grande, bello, nobile ci sia da perseguire nella vita, ma che ci si debba accontentare di un qui ed ora, di obiettivi di basso profilo, di una navigazione di piccolo cabotaggio, perché vano è puntare la prua verso il mare aperto. L’esito finale della cultura nichilista è una sorta di grande anestesia degli spiriti, incapaci di slanci e quindi inerti. Guardando alle cronache del nostro Paese, sempre più spesso dobbiamo registrare vicende amare che hanno per protagonisti gli adolescenti, «le cui reazioni manifestano osserva il Papa − una non corretta conoscenza del mistero della vita e delle rischiose implicanze dei loro gesti. ( ) Fornire false illusioni nell’ambito dell’amore o ingannare sulle genuine responsabilità che si è chiamati ad assumere con l’esercizio della propria sessualità non fa onore a una società che richiama ai principi di libertà e di democrazia» (Benedetto XVI, Discorso ai Partecipanti al Congresso internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, nel 40° dell’enciclica Humanae vitae, 10 maggio 2008). In tal modo i sogni e i desideri tipici dei giovani vengono frantumati proprio mentre chiedono invece di essere protetti, coltivati nel lavoro educativo, e sospinti verso mete nobili e alte, che noi sappiamo essere a misura dei giovani.
Questo, oggi, può essere considerato l’obiettivo di fondo dei percorsi di evangelizzazione ed educazione da proporre ai giovani, e dei quali ci parlerà il nostro Vice-presidente, l’Arcivescovo Agostino Superbo, nella relazione che svolgerà nel corso dei lavori assembleari. Da parte mia, vorrei limitarmi ad osservare una cosa forse ovvia, ma decisiva, e cioè che questi percorsi sono possibili, e costituiscono un obiettivo realistico anche nella situazione d’oggi. So bene infatti che proprio qui si annida una particolare sfiducia, ritenendo che l’organizzazione della vita giovanile e ancor più il tipo di applicazione intellettuale a cui sono abituati, impressionistica ed episodica, quasi falcidi − dalla base − la possibilità di itinerari distribuiti nel tempo e dunque progressivi e metodici. Ora, non c’è dubbio che occorra saggiamente tener conto di una serie di condizionamenti e abitudini di apprendimento, non però per arrenderci, quanto per calibrare secondo proporzioni nuove i momenti della proposta. A partire da ciò che sta oggettivamente al centro di ogni percorso cristiano, ossia l’adorabile persona di Cristo Signore. Ciò tuttavia non significa che, come si diceva una volta, Cristo arriva alla fine della proposta: l’annuncio kerigmatico oggi cattura più solitamente dall’inizio, perché è realmente il fascino esercitato dalla persona di Gesù a colpire, per contrasto, magari come ragione di un evento che turba o come senso profondo di una testimonianza di vita che colpisce e sgomenta. Ma anche come reazione abissalmente altra rispetto al vuoto desolante, rispetto ai progetti di de-costruzione che passano per l’assunzione delle droghe o dell’alcol, per i riti dell’assordimento e dello stordimento. Cristo allora diventa come il risveglio inaudito ad una vita diversa, radicalmente altra, ideale subito concreto e pertinente, principio riordinatore di un’esistenza via via capace di altri sapori e di altri riti.
È da qui, dall’evento dell’incontro già nitido ma non ancora completo, che può iniziare il cammino della conoscenza che, oggi forse ancor più di ieri, converge fino ad essere un tutt’uno con quello della conversione, ossia di una vera metà–noia che porterà i giovani, con i ritmi di ogni crescita, con gli inevitabili alti-e-bassi di ogni ascesi, ad assumere su di sé «il grande sì della fede», lasciandosi personalmente sagomare da esso nella propria e specifica esistenza, con i suoi talenti e la sua vocazione. Il sì della fede che, a cerchi concentrici, maturerà fino ad includere e a riconoscersi nel sì che la Chiesa dice a Cristo, in tutte le sue fibre e fino al cuore del mondo, dunque con la disponibilità a compromettersi anche pubblicamente, sapendo andare quando serve contro-corrente. Giovanni Paolo II ebbe un giorno ad osservare che il «problema essenziale della giovinezza è profondamente personalistico» (Giovanni Paolo II, Varcare le soglie della speranza, pag121), e per ciò stesso rivolto anzitutto all’interiorità personale, e quindi alla vita vissuta nella sua interezza. Su questo asse caratteristico del personalismo cristiano il giovane saprà gradatamente innestare esperienze e scoperte, gioie e insuccessi, ma avendo anzitutto preso coscienza che «la verità non è un’imposizione. Né è semplicemente un insieme di regole. È la scoperta di Uno che non ci tradisce mai, di Uno del quale possiamo sempre fidarci» (Benedetto XVI, Discorso all’Incontro con i giovani e seminaristi, New York, 19 aprile 2008).
Anche Papa Ratzinger, come il suo grande predecessore, non mortifica i giovani né li giudica. Neppure noi li giudichiamo, vogliamo piuttosto dare loro fiducia: sappiamo che sono profondamente buoni, e insieme spesso smarriti, alla ricerca di ideali non fittizi, per cui spendere la vita. E talvolta la sanno generosamente spendere fino al sacrificio! Il problema dei giovani sono gli adulti. Essi non respingono l’autorità, cercano l’autorevolezza dei testimoni e dei maestri. Certo che vediamo i loro comportamenti contraddittori, a volte ancora adolescenziali; a volte trasgressivi e gravi. Lo stesso bullismo tuttavia è anche segno di un vuoto dell’anima e un’implicita richiesta d’aiuto. Esperta come deve essere in umanità, la Chiesa non si fa ingannare dalle apparenze e sa di dover leggere dietro di esse, dove si celano le movenze più interiori e profonde della persona, e dove arde il desiderio di una vita piena, di traguardi coraggiosi, per i quali vale davvero la pena di vivere.
Compito della comunità cristiana e dei suoi educatori è far emergere dal mazzo delle aspirazioni i buoni sogni e i buoni desideri, fra tutti il desiderio di Dio. I giovani d’oggi vivono quasi per l’intero arco della loro giornata in qualche modo connessi, ossia collegati a questo e quel mezzo di comunicazione, e dunque l’abilità suasiva dei media è potente, perché lusinga e promette: promette anche ciò che non può mantenere. Per questo è di vitale importanza insinuare nei giovani la voglia di non concedersi acriticamente, di non consegnare se stessi, e i loro anni migliori, ad una cultura che pervade mentre snerva, e che blandisce mentre smonta. La progressiva confidenza con i media di ispirazione cristiana li aiuterà in questa opera di disincanto e di spogliazione delle mitologie e dei lustrini. Seppur questo non può essere un alibi per nessuno, neppure per i grandi network e il sottile habitat che riescono a insinuare.
A tutti è noto il livello delle proposte e il vuoto-spinto a cui certi programmi arrivano. Per chi è ancora inesperto e per chi non ha il senso critico necessario, la televisione diventa facilmente un territorio senza regole in cui, magari all’insegna apparentemente neutra del marketing, trovano facile veicolazione anche modelli distorti di vita. I media nel mondo occidentale, compresa la nostra Italia, stanno caricandosi di una responsabilità enorme: nonostante proposte apprezzabili, troppo frequente è la diffusione suadente di illusioni, nonché il depistaggio rispetto a ciò che conta, a ciò che vale, a ciò che costruisce le persone e le comunità. C’è da chiedersi a chi giova tale impostazione.
A proposito di media, non può sfuggirci il destino verso cui sta strutturalmente andando la televisione in tutta Europa, ossia la trasmutazione del sistema analogico a quello digitale, assai più raffinato nelle prestazioni tecniche e potenzialmente più largo di opportunità. Per capirci, avremo presto (non oltre il 2012) molti canali in più, liberamente fruibili da ogni apparecchio. Auspichiamo che ci siano in misura adeguata fornitori di contenuti disposti ad entrare e a svolgervi una missione che, oltre i legittimi rientri, sappia farsi carico anche dell’inevitabile valenza civile e culturale dell’operazione. Si innesta qui l’esperienza dell’ancora giovane Sat2000, che da tempo si va preparando proprio per questi nuovi scenari. Il rischio non remoto, dicono gli esperti, è che i nuovi spazi diventino appannaggio delle industrie pornografiche presenti sul piano internazionale. Ovvio che nessuno vuole demonizzare un sistema ancora tutto da provare, tuttavia è necessario che le autorità competenti sappiano fin d’ora vigilare su questo delicato processo, e all’occorrenza intervenire per indirizzarlo su binari di effettivo valore pubblico.
7. Parlavamo di giovani, e non possiamo non fare un cenno ai nostri Sacerdoti, molti dei quali sono proprio a fianco dei giovani per aiutarli nelle dinamiche della crescita e della maturazione. Parlo sempre volentieri di loro, perché tra noi e loro esiste un legame certamente affettivo, ma innanzitutto sacramentale, che a titolo unico li rende participi della nostra missione pastorale. Lo scorso giovedì santo, Papa Benedetto, commentando il libro del Deuteronomio al capitolo 18, dove si descrive l’essenza del sacerdozio vetero-testamentario astare coram te et tibi ministrare aggiungeva che oggi il Sacerdote deve «tener sveglio il mondo per Dio. Deve stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Signore deve essere sempre, nel più profondo, anche un farsi carico degli uomini presso il Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre» (Omelia della Messa del Crisma, 20 marzo 2008). Ecco come ci piace pensare ai nostri Sacerdoti: compiono un servizio unico per Dio e per ciò stesso compiono un servizio ineguagliabile per i loro fratelli. Impavidi e disposti a portare le prove che il servizio al Signore e alla Chiesa comporta, perché partecipi del culto che Cristo ha reso al Padre: donarsi fino alla fine (cfr. ibidem.). Donarsi in primo luogo ai giovani, ma donarsi a tutti coloro ai quali la Chiesa li invia, anzi a tutti coloro che incontrano. Sappiamo che il lavoro pastorale non è un giogo leggero (cfr. Mt 11,30), non è un’occupazione a tempo, per determinate ore, o solo in determinate condizioni: impegna sempre, anche quando si è al cospetto di Dio e ovunque, quale che sia il campo della missione. Sui nostri Sacerdoti ricade, oltre al lavoro ordinario, anche lo sforzo di rinnovamento della pastorale. Sono al crocevia di impegni e progetti, rispetto ai quali faranno bene a cercare ogni opportuna collaborazione che esplichi la partecipazione anche dei laici alla missione della Chiesa, ai compiti della parrocchia (cfr. Lumen Gentium, nn. 30-39; Apostolica Actuositatem, n. 10). Diceva provocatoriamente un osservatore di cose politiche, riferendosi ad uno dei tanti disagi sociali che affliggono il Paese: «A parlare col popolo sono rimasti solo i parroci». E la frase fu portata anche nel titolo, perché forse bruciasse di più. Più realisticamente, noi pensiamo che i nostri preti, grazie ad una solida e continua formazione, si perdono nella comunità per sostenerla e risollevarla. A loro, dunque la nostra gratitudine.
Per affinità con l’ambito pastorale, vorrei far cenno al ventennale del documento Sovvenire alle necessità della Chiesa che, appunto, nel 1988 fu dai Vescovi donato alla comunità ecclesiale. Il testo obbediva allora ad una necessità contingente: fornire un’informazione completa e corretta sui nuovi modi con cui avrebbero potuto contribuire alla vita economica della Chiesa. Per la prima volta, dopo tanti anni, la Chiesa italiana rinunciava ad ogni automatismo e garanzia. Da quel momento, tutto veniva affidato unicamente alla volontà dei cittadini italiani, alla loro generosità e alla loro fiducia nella Chiesa. Vogliamo ringraziare tutti per il sostegno di questi due decenni, senza però dimenticare che il sistema si fonderà sempre sulla fiducia, perché nulla vi è di automatico. Fiducia che anche in futuro la nostra Chiesa dovrà saper meritare con quelle scelte che sono intrinseche al Vangelo: con la sua testimonianza limpida, con i suoi comportamenti, con la sua credibilità.
In questa assemblea discuteremo e, nel caso, approveremo un nuovo testo, che facendo leva sui criteri-guida del documento precedente la trasparenza e la partecipazione esprimerà con parole comprensibili all’uomo di oggi concetti presenti da sempre nella comunità, nella quale tutti sono chiamati a donare sulla base delle proprie possibilità e in virtù di un forte, profondo senso di appartenenza. Il nuovo sistema di sostegno economico, vent’anni fa, lanciò anche un’altra sfida sul versante della comunicazione. Rivolgendosi anche a chi non partecipa alla vita della comunità cristiana, abbiamo informato e sensibilizzato gli italiani; ma forse non ancora abbastanza, stando anche a recenti casi di mala-informazione che tuttavia, ne siamo sicuri, non distoglieranno i fedeli dal contribuire alla vita della loro Chiesa, e i cittadini pur non praticanti dal partecipare anche solo a livello simbolico ad una missione che ha la loro stima.
8. Com’è noto, nel nostro Paese il 13 e 14 aprile si sono svolte le elezioni politiche generali, a cui erano state associate le elezioni di due consigli regionali, di una serie di consigli provinciali e di oltre cinquecento consigli comunali. Nonostante infauste previsioni, la partecipazione al voto si è mantenuta alta, e questo è un segno importante di consapevolezza e di maturità del nostro popolo. Ora, al di là di quelle che sono state le specificazioni del voto, ci si attende un periodo di operosa stabilità, al quale costruttivamente partecipino tutte le forze politiche, nei ruoli loro assegnati. Nella citata circostanza, la Chiesa − com’è stato da più parti riconosciuto si è scrupolosamente attenuta ai suoi compiti e, conformemente ad un costume ben collaudato, non si è schierata, ma certo non si è neppure ritirata. In coincidenza infatti con le due ultime sessioni del Consiglio Permanente, quella di gennaio e quella di marzo, io stesso mi ero permesso di richiamare, nel quadro di una presenza che deve evitare l’irrilevanza, i criteri di una sapiente e adeguata partecipazione dei credenti al voto, riscontrando nello stesso Consiglio Permanente una grande e incoraggiante sintonia.
Non possiamo ora, nella nuova situazione, non sperare che in tutti vi sia una più forte responsabilità in ordine all’affronto dei grandi problemi che affliggono il Paese, e ai quali bisogna saper dare ora risposte sagge ma anche sollecite: non tanto nell’interesse dell’una e dell’altra parte politica o componente sociale, ma anzitutto per il bene comune della Nazione. Vorremmo per un istante, e in nome della nostra specifica responsabilità, insistere sul fattore tempo, che anche moralmente è un elemento decisivo in ordine ad una politica buona: ci sono lungaggini e palleggiamenti che, oltre ad essere irrazionali e autolesionistici, offendono i cittadini, che attendono risposta in ordine ai beni che sono essenziali alla vita e alla dignità umana. Oltre al problema gravissimo e urgente dei rifiuti urbani della Campania, per la cui soluzione all’intervento delle pubbliche autorità deve corrispondere la responsabile collaborazione delle popolazioni, una serie di attese si apposta sul fronte degli stipendi e delle pensioni, per una difesa reale del potere d’acquisto, un’altra serie riguarda la famiglia: dall’emergenza abitativa alle iniziative di sostegno della maternità. Neppure noi Vescovi, come il Papa, possiamo nasconderci «che diversi problemi continuano ad attanagliare la società odierna, impedendo di dare spazio al desiderio di tanti giovani di sposarsi e formare una famiglia per le condizioni sfavorevoli in cui vivono» (Benedetto XVI, Discorso ai membri del Movimento per la Vita italiano,12 maggio 2008). C’è poi la realtà mortificante di tante famiglie, dalle quali «si leva, talvolta persino inconsapevolmente, un grido, una richiesta di aiuto che interpella i responsabili delle pubbliche amministrazioni» (Benedetto XV, Discorso al Forum delle Associazioni familiari, 16 maggio 2008). Il che ci fa apprezzare molto l’iniziativa Un fisco a misura di famiglia che negli ultimi mesi ha visto in tutto il nostro Paese una larga mobilitazione. Se in questo ambito sociale chiediamo che si sviluppi una vera e larga premura, in quello confinante della bioetica auspichiamo una complessiva cautela, grazie alla quale gli elementi in gioco vengono sapientemente soppesati, mettendo la comunità nazionale al riparo da iniziative imprevidenti e precipitose. C’è da dire che la sostanziale prudenza tenuta circa questi temi durante la campagna elettorale, dovrebbe essere un buon indizio sulla prudenza anche successiva.
Una parola qui non possiamo non dirla per l’intervento operato sulle Linee guida relative alla legge sulla fecondazione assistita. Da vari e qualificati osservatori si è già eccepito sul merito e sui tempi del provvedimento. Infrangendo un delicatissimo bilanciamento delle esigenze in campo, esso comporta oggettivamente il rischio di promuovere una mentalità eugenetica, inaccettabile ieri al pari di oggi. è da auspicare che i criteri ispiratori e le disposizioni della legge 40 non siano oggetto di interventi volti a stravolgere il punto di equilibrio raggiunto dal Parlamento, e poi chiaramente confermato dall’esito referendario, ma al contrario possano trovare piena attuazione in uno spirito di condivisa attenzione alla vita.
Una frontiera di impegno particolarmente urgente è quella relativa alle morti sul lavoro. Gli episodi luttuosi infatti si vanno ripetendo con una cadenza stupefacente, segnale di un comparto bisognoso di maggiore attenzione. Bisogna qui saper passare con prontezza dalle denunce ai fatti concreti, agli investimenti precauzionali, alle verifiche e ai controlli. Tutti i soggetti devono fare la loro parte, con un supplemento di responsabilità; ma è dagli imprenditori in particolare che si attendono quelle provviste e quelle innovazioni strutturali che sole possono garantire il successo degli altri interventi. La vita è sacra, e distintamente lo è quella impegnata sul lavoro duro e rischioso.
Altri fronti che ci permettiamo con accoratezza di segnalare è la dignità di tutto il sistema scolastico, all’interno del quale noi vediamo la prospettiva concreta di un’effettiva libertà, pluralità e autonomia anche economica, che deve essere assunta in modo organico e propositivo.
Segnaliamo inoltre l’urgenza di approntare e affinare delle buone politiche volte ad una reale integrazione dei cittadini immigrati che legittimamente soggiornano sul nostro suolo. Mentre per ciascuno di quelli che tentano di entrare nel nostro Paese bisogna trovare un continuo equilibrio tra esigenze e attese, tenendo alto il rispetto dei diritti delle persone, che sono poi doveri di civiltà. Pare a me che si debba evitare, per questi nuovi venuti e le loro famiglie, il formarsi di enclave a loro destinate che, se in un primo momento potrebbero apparire una soluzione emergenziale, diventano presto dei ghetti non tollerabili. A chi vuole stabilirsi in Italia si deve arrivare a proporre un patto di cittadinanza che, mettendo in chiaro diritti e doveri, non ricerchi scorciatoie illusorie. L’identità del nostro popolo non è sorta oggi, perché si è consolidata in una storia secolare, e per questo da una parte chiede rispetto e dall’altra rimane aperta e capace di incontrare altre culture, nella prospettiva di un’identità arricchita per tutti. In ogni caso, dobbiamo farci tutti guidare dalla consapevolezza delle dimensioni globali del fenomeno e dal suo carattere emblematico per la nostra epoca. Su questo scenario frastagliato, la Chiesa si va prodigando con una generosità a tutti nota, attraverso la Fondazione Migrantes, la Caritas e altre strutture di volontariato, investendo non poche risorse di personale e mezzi. Che tuttavia non bastano mai, perché restano evidentemente insostituibili altri livelli di responsabilità e di intervento.
9. Una parola ci pare di poter dire sul crescente bisogno di sicurezza che viene registrato dagli osservatori sociali e di cui tanto s’è discusso nel periodo della campagna elettorale. Infatti, anche per i sensori che noi pastoralmente abbiamo nelle diverse realtà territoriali, ci pare di avvertire che si va qui esprimendo un’esigenza incoercibile di persone e famiglie, a cui sarà bene che i pubblici poteri sappiano, ai vari livelli, dare risposte calibrate ed efficaci. Una risposta disattesa o differita potrebbe in questo caso moltiplicare i problemi, anziché attenuarli. Lo annotava ormai anni or sono Giovanni Paolo II ricevendo un gruppo di politici: «L’adozione di misure efficaci anche in questo caso sarebbe di grande aiuto per accrescere la fiducia nelle Istituzioni e il senso della comune cittadinanza» (Discorso agli Amministratori della Regione Lazio, del Comune di Roma e della Provincia di Roma, 18 gennaio 2001). Nel gennaio di quest’anno, il suo Successore Benedetto XVI non è stato certo generico o evasivo (cfr. Discorso agli Amministratori della Regione Lazio, del Comune di Roma e della Provincia di Roma, 10 gennaio 2008). Difficile tuttavia non risalire a quella che a me pare la radice di questa insicurezza, che prima di essere un sospetto verso gli altri, è senso dell’isolamento in cui molti cittadini oggi si trovano un po’ a motivo dell’organizzazione sociale, e un po’ a causa anche delle condizioni soggettive. C’è infatti un’insicurezza esterna e ambientale, legata ai movimenti delle persone come all’esposizione delle abitazioni; ma c’è anche un’insicurezza sui valori che devono interiormente rassicurare le persone, e renderle più salde.
A questo riguardo, vorrei segnalare che un contributo al bisogno di sicurezza, anche se non immediatamente diretto, viene dalle comunità cristiane presenti sul territorio, e distribuite a rete nelle situazioni urbane come in quelle dei centri medi, ma anche piccoli e piccolissimi: ed è la valorizzazione della dimensione sociale della fede, degli incontri e degli ambienti ad essa collegati. In modo sintetico, mi piace vedere il sagrato come figura simbolica della Chiesa vicina e incarnata tra la gente in tutte le sue forme: dalle parrocchie alle aggregazioni antiche e nuove. Il sagrato è stato nell’ultima stagione riscoperto nelle sue valenze religiose e civili, non solo a cerniera tra il sacro e il profano come era stato nei tempi antichi ma anche quale luogo dell’accoglienza e dell’incontro, dell’orientamento a Dio come al prossimo. In altre parole, sarà utile se lo spazio antecedente la chiesa, anziché via di fuga o spiazzo che si attraversa frettolosamente, diventa luogo del dialogo, dell’amicizia e dell’ascolto. Ci sono tanti dolori nascosti, sofferenze prolungate, solitudini non volute, vuoti lancinanti (si pensi alle 23 mila persone scomparse, che da qualcuno sono attese e cercate, magari tra incomprensione e sospetti): socializzare queste situazioni, come pure i traguardi e le riuscite che rendono felice questa o quella famiglia, torna oggi ad essere importante. E potrebbe essere parte di un’iniziativa pastorale che sta a cavallo con la dimensione civile, dove la presenza di fedeli a ciò portati, come pure l’opera di diffusione dei nostri media, possono dare quel tocco di accorta vitalità, che non è disturbo per l’azione sacra ma neppure si confonde con i marciapiedi vocianti e casuali. E ciò in un’ottica di rivalorizzazione anche di altri ambienti comunitari come l’oratorio, l’asilo parrocchiale, la sala della comunità, e di momenti socializzanti, tipici della pietà popolare, quali sono le feste patronali e le sagre del paese o del rione.
In questo contesto, vorrei rinnovare l’assidua vicinanza e la cordiale solidarietà a quei nostri Confratelli che operano nelle zone più difficili del Paese, perché ad alta infiltrazione malavitosa o perché segnate da gravi disagi e dall’abbandono. È soprattutto a servizio dei ragazzi e dei giovani che la loro opera è straordinariamente meritoria: là dove tutto o quasi congiura all’incontrario, questi Vescovi, con i loro collaboratori, gettano ponti e organizzano la speranza. L’Italia intera deve essere loro grata.
Concludo questa ampia rassegna di temi con un riferimento della Spe Salvi a quell’affidabile speranza (cfr. n. 1) di cui parla il Papa, e che rende sicura la promessa del Signore: Lui è con noi (cfr. Mt 28,20), perché noi siamo con Lui (cfr Gv 14,3), e in Lui sviluppiamo pensieri e progetti destinati alle nostre Chiese. Ci guidi Maria, la stella del mattino (cfr. Spe Salvi, n. 49), ci assistano i Santi patroni d’Italia, Francesco e Caterina, e i Santi ai quali sono consegnate le nostre Diocesi. Grazie.