Opinioni & Commenti
Primo maggio, il lavoro che vorremmo soprattutto per i giovani
di Pier Angelo Mori
Come ogni anno la festa del 1° maggio riporta all’attenzione il mondo del lavoro e i suoi problemi. Sono tanti i problemi irrisolti, dal lavoro irregolare alla sicurezza, ma ce ne sono due che in questo momento sovrastano tutti gli altri.
Siamo nel mezzo di una crisi economica assai dura e la prima preoccupazione è ovviamente per la perdita di posti di lavoro che si sta verificando da oltre un anno. L’aumento della disoccupazione per essere contrastato va però correttamente interpretato. Se fosse solo un fenomeno congiunturale, si riassorbirebbe naturalmente a crisi finita e quindi nel frattempo basterebbe intervenire sugli ammortizzatori sociali, come si sta facendo. Purtroppo vi è anche una componente strutturale, dovuta alla riallocazione internazionale delle produzioni la cosiddetta gloabalizzazione che non è facile da quantificare: certo è che i posti di lavoro persi per questa ragione non ritorneranno dopo la crisi senza che vi sia una ristrutturazione industriale e quindi senza opportuni interventi di politica economica. Su questo fronte alcuni paesi più abituati del nostro a attuare politiche di medio-lungo periodo si stanno muovendo, mentre l’Italia è immobile.
Se la tenuta dell’occupazione giustamente preoccupa, c’è tuttavia un secondo problema che è potenzialmente ancor più preoccupante nella prospettiva di medio-lungo periodo: la condizione del lavoro giovanile. Ormai da diversi anni assistiamo a una progressiva degradazione del mercato del lavoro giovanile che è fotografata da numerosi indicatori: tassi di disoccupazione più elevati della media della popolazione, dequalificazione delle occupazioni giovanili, ritardato ingresso nella vita attiva, precarizzazione, ecc. In poche parole i giovani faticano a trovare lavoro e quando lo trovano è di bassa qualità. Alcuni di questi fenomeni, come i tassi di disoccupazione giovanile più elevati della media nazionale, sono presenti anche in altri paesi dell’Unione ma in Italia si manifestano in modo nettamente più marcato.
Le cause di tutto ciò sono molteplici e complesse. Sicuramente l’asimmetria delle protezioni di cui godono i giovani e gli anziani, a tutto favore di questi ultimi, è una causa primaria, come ci dicono diversi studi, ma anche il basso livello di innovazione dell’industria italiana, che rende meno urgente puntare sui giovani, la bassa qualità dei titoli di studio, ed altro ancora che contribuisce a rendere bloccato il mercato del lavoro giovanile in Italia.
A parte i disagi immediati che provocano, le disfunzioni che abbiamo di fronte hanno effetti di lunga durata che le rendono particolarmente dannose. Se un laureato impiega cinque anni per conseguire la laurea e poi passa altri cinque in occupazioni occasionali per approdare infine a un’occupazione che non è per nulla congruente con la sua formazione universitaria, ha di fatto perso dieci degli anni più importanti per la accumulazione di capitale umano, che in massima parte ha luogo sul posto di lavoro. Le disfunzioni del mercato del lavoro giovanile hanno dunque l’effetto nefasto di ridurre l’accumulazione di capitale umano del paese, da cui dipende la crescita nel medio-lungo periodo. Domani a prendere il posto dei lavoratori anziani saranno ex-giovani sostanzialmente meno qualificati di coloro che vanno a sostituire. Bisogna guardare oltre le pur terribili contingenze del momento e rendersi conto che il paese non può continuare a ignorare il problema del lavoro giovanile se in prospettiva vuole riprendere a crescere.
Abbiamo detto che le cause della patologia sono diverse. Alcune di queste possono essere affrontate solo a livello nazionale, come la legislazione del lavoro, mentre altre possono essere affrontate anche a livello regionale. Anzi per alcune di esse, come la politica industriale che non c’è mai stata a livello nazionale, il livello regionale potrebbe essere l’unica chance, se le regioni disporranno di maggiore capacità di spesa. Peraltro vi sono già ora campi cruciali di intervento nella piena disponibilità delle regioni. Mi limito a un solo esempio: la formazione professionale. Oggi è nel migliore dei casi una formazione di seconda o terza categoria, nel peggiore non ha nulla a che vedere con la formazione ma risponde a logiche clientelari e assistenziali. E’ necessario indirizzare più giovani verso questo canale in alternativa alla formazione universitaria, che si mostra sempre meno adeguata al mercato del lavoro, ma per far questo occorre riqualificarla fortemente, tanto da renderla concorrenziale con gli studi universitari (Germania docet). Tutto questo richiede non necessariamente più risorse finanziarie ma un forte cambiamento di prospettiva: guardare lontano e resistere alle pressioni degli interessi particolari del presente in favore dell’interesse generale del futuro.