Vita Chiesa
Preti stranieri, una presenza in crescita
di Luigi Crimella
Gli immigrati in Italia, tra comunitari ed extra-comunitari, superano i 4,3 milioni considerando i regolari o in via di regolarizzazione, come attesta il Dossier statistico Caritas/Migrantes. Stime recenti parlano di oltre 5 milioni di immigrati totali, se si conteggiano anche gli irregolari e i clandestini. Circa un decimo della popolazione del nostro Paese è quindi costituito da stranieri immigrati, da tutti i continenti, con prevalenza di 6 nazioni che da sole assommano a oltre il 50% degli arrivi: Romania (20,5%), Albania (11,3%), Marocco (10,4%), Cina (4,4%), Ucraina (4%) e Filippine (2,9%).
A fronte di questa situazione, l’assistenza religiosa cattolica agli immigrati che abbracciano la nostra fede, è rappresentata da un totale di circa 700 preti cattolici che animano altrettanti centri pastorali per stranieri su tutto il territorio nazionale. Oltre a questa cifra, si registra la presenza nel nostro Paese di altri 1.500 preti stranieri, accolti a vario titolo e altrettanto variamente impegnati in attività e forme di collaborazione pastorale (rispetto a un totale di quasi 33 mila preti italiani). Su queste presenze, sul loro significato e ruolo nella pastorale italiana, in occasione dell’Anno Sacerdotale, il Sir ha posto alcune domande a mons. Benvenuto Italo Castellani, arcivescovo di Lucca e presidente della Commissione episcopale per il clero, oltre che del Centro nazionale vocazioni.
Come valuta queste presenze nel quadro della pastorale italiana?
«Sicuramente comincia ad esserci una non trascurabile presenza di presbiteri stranieri impegnati a diverso modo nella vita pastorale e nel servizio alle comunità. Ci sono quelli presenti per motivo di studio, che aiutano per i sacramenti e le celebrazioni domenicali. Ci sono quelli a tempo pieno che hanno lasciato le loro diocesi e sono inseriti in modo significativo nelle nostre Chiese locali. Ci sono infine i presbiteri ex-religiosi, che chiedono di passare al clero secolare. È questo un settore assai delicato perché si tratta di persone che hanno avuto una prima formazione all’interno del carisma di un istituto religioso e quindi hanno avuto anche una caratterizzazione nel loro agire pastorale fortemente legata alla natura dell’istituto di provenienza».
Nelle diocesi c’è un equilibrio rispetto all’inserimento di questi presbiteri?
«Mi sembra di sì, considerato che se da una parte si apprezza il loro servizio a tempo pieno, dall’altra va evidenziato che in non pochi casi si presentano problematiche legate alle caratteristiche culturali e sociali di provenienza che per giustificati motivi e senza nessun preconcetto alla fine non coincidono con lo specifico del servizio del prete italiano che è proprio quello di essere un prete tra la gente, con la gente e per la gente. È auspicabile che si proceda nell’impegno per far maturare in questi presbiteri una motivazione e una attitudine più legate allo stile del prete italiano, stile che la gente ha sempre apprezzato».
Cosa si nota circa il servizio dei preti stranieri nei confronti dei propri gruppi etnici di provenienza?
«Riconosco che questi presbiteri fanno un ottimo servizio verso i fedeli appartenenti ad una etnia alla quale loro stessi appartengono e che spesso per questi immigrati sono una risorsa per mantenere unità sociale, cultuale e religiosa e per proseguire la formazione cristiana, assicurando anche un positivo confronto delle culture in questa nostra società ormai multietnica. Va anche sottolineata la necessaria attività che ormai svolgono affinché questi gruppi non restino isolati, cioè non si formino delle Chiese nella Chiesa, ma possano sempre più, con il passare del tempo e delle generazioni, inserirsi nella comunità cristiana, così come deve avvenire anche nella società civile. Si tratta di un ruolo profetico che la Chiesa custodisce e affida loro in questo tempo di cambiamenti e di novità».
Ritiene sia comunque sempre positiva la presenza di preti stranieri nelle nostre comunità?
«Da come mi sono già espresso, risulta chiaro che le cose non sono così facili né automatiche, anche perché un prete che viene ordinato in una Chiesa – ammesso che non si dedichi all’attività missionaria – primariamente ha una responsabilità verso quella Chiesa che lo ha generato. Di fronte alla crisi delle vocazioni, bisogna stare attenti a non deresponsabilizzare le nostre parrocchie perché una comunità è feconda nella misura in cui esprime anche vocazioni al presbiterato. Tutti i credenti si debbono interrogarsi sulle ragioni profonde della sterilità vocazionale che un po’ dovunque ormai sta colpendo le comunità della Chiesa in Italia».
Impegnati in diverso modo nella vita pastorale e nel servizio alle comunità, il maggior numero dei sacerdoti stranieri è chiamato a vivere e ad operare nelle parrocchie. Qui, a volte, l’inserimento non è facile, soprattutto perché le difficoltà di lingua, di cultura e di abitudini pesano. Tuttavia, in generale, si è costruito un buon rapporto con la comunità. Grazie, da un lato, alla loro disponibilità a mettersi in atteggiamento di accoglienza della cultura che li accoglie. E grazie, dall’altro, alla buona accoglienza da parte dei sacerdoti italiani e degli stessi parrocchiani. «È importante sottolineare», continua il vicario, «che il loro è un servizio prezioso. La loro presenza rappresenta senza dubbio una ricchezza per la nostra Chiesa».
Simone Zucchelli