Vita Chiesa

Preti stranieri: «Una presenza che arricchisce la Chiesa»

di Riccardo Bigi

Preti stranieri: una ricchezza, una risorsa. A volte anche un problema, perché l’inserimento non è sempre facile, perché le difficoltà di lingua, di cultura, di abitudini comunque pesano. Certamente una presenza che non passa inosservata: in molte diocesi toscane, nei giorni scorsi, sono state annunciate le nomine e i trasferimenti di parroci e viceparroci, e dappertutto i nomi esotici, a volte per noi impronunciabili per l’eccessiva concentrazione di consonanti, saltano all’occhio.

«Quella dei sacerdoti che arrivano nelle nostre diocesi dall’Africa, dall’Asia, dal Sudamerica, dai paesi dell’est europeo è una realtà molto complessa e variegata» afferma padre Stefano Messina, direttore del Centro missionario della Diocesi di Firenze, che tra le altre cose si occupa anche di seguire questo particolare aspetto, come forma di cooperazione missionaria tra le Chiese. L’ottica giusta in cui inquadrare questo fenomento, secondo padre Stefano, è proprio quella della scambio, dell’arricchimento reciproco tra le nostre Chiese e le «Chiese giovani». Uno scambio che porta nelle nostre parrocchie, sottolinea padre Stefano, una ventata di novità, che ci aiuta ad allargare gli orizzonti, a toccare con mano l’universalità della Chiesa: «Non dobbiamo dimenticare che i preti che arrivano in Italia per completare gli studi sono quelli su cui i loro Vescovi puntano per affidargli, al loro rientro in patria, ruoli di responsabilità». Nonostante questo, l’approccio non è sempre facile: «Da parte loro ci possono essere difficoltà iniziali, hanno bisogno di tempi più o meno lunghi per inserirsi nella realtà umana e pastorale delle nostre comunità. Altre volte si scontrano con chiusure e pregiudizi, da parte di alcuni fedeli e perfino di alcuni sacerdoti che non hanno ben compreso le ragioni della loro presenza e le potenzialità di questo scambio». L’obiettivo comunque, secondo padre Stefano, è quello di un rientro del sacerdote, dopo alcuni anni, nel suo paese di origine: «Ci sono le eccezioni, ma la norma è che siano qui per un periodo di studi e di esperienza pastorale. Per questo è importante aiutarli, da parte nostra, perché questo periodo sia il più possibile proficuo: anche questo è un modo, molto efficace, di aiutare le Chiese sorelle di Paesi lontani».

Monsignor Carlo Stancari, vicario per la pastorale della diocesi di Prato, conosce bene questo fenomeno anche perché, come parroco di Santa Maria delle Carceri, da molti anni ha collaboratori stranieri: al suo fianco si sono alternati preti provenienti dalla Polonia, dalla Romania, dalla Tanzania, dall’India. «Generalmente l’esperienza è buona, o molto buona», commenta: «Ho sempre trovato sacerdoti assidui nel curare il ministero della confessione, che qui in basilica è molto importante, e molto bravi nel seguire i giovani (in particolare gli Scout) e le famiglie. Danno anche un apporto di qualità spirituale, e rappresentano già con la loro presenza, e con i contatti che si portano dietro, una bella forma di cooperazione missionaria».

A Prato fra l’altro questa presenza non è certo una novità: fu monsignor Pietro Fiordelli, quarant’anni fa, uno dei primi vescovi a portare in Italia preti stranieri, ospitando in diocesi una comunità di sacerdoti maltesi. «È una presenza a cui dobbiamo essere grati – sottolinea mons. Stancari – per il servizio prezioso che ci offre; una presenza che ci interroga sul piano vocazionale, perché una comunità cristiana che non riesce più ad esprimere i propri pastori è una comunità che non ha ancora raggiunto la sua maturità di fede, o che l’ha perduta. È una presenza infine, che ci spinge a metterci in discussione. A volte infatti c’è l’equivoco di considerare il prete straniero una semplice “manodopera”: invece sono confratelli che svolgono lo stesso nostro ministero, con pari dignità e pari responsabilità». A Prato, in effetti, si trovano sacerdoti di origine straniera anche il incarichi importanti: il viceparroco della Cattedrale è un indiano, mentre il vicedirettore della Caritas è polacco. Poi ci sono sacerdoti che rappresentano anche un punto di riferimento importante per le comunità straniere presenti a Prato: quella cinese, quella polacca, quella sudamericana… «Da molti anni – conclude mons. Stancari – le nostre Chiese inviano missionari all’estero: oggi abbiamo la fortuna di poter vivere in casa nostra quell’impronta missionaria che non deve mai mancare nelle nostre comunità».

Don Robert, in Italia (quasi) per caso: «In Polonia le chiese erano piene, qui le persone si devono andare a cercare»Don Robert Skowronski in Italia è arrivato quasi per caso. Al quarto anno di seminario, in Polonia, ebbe una crisi di «identità vocazionale» e decise di passare un anno sabbatico in Italia, dove conosceva don Bernard Byczek. Così è iniziata la sua storia di prete «straniero» (oggi è parroco a S. Giusto, Pisa), che ci ha voluto raccontare.

«Sono nato nel ’69 a Koszalin una città di circa 100.000 abitanti, nella nord della Polonia, sul Baltico, tra Danzica e Stettino. I miei genitori, come quasi tutti gli abitanti della città, venivano da altre regioni, chiamati dal regime a ripopolare quella zona, che i tedeschi erano stati costretti ad abbandonare, alla fine della guerra».

Il regime garantiva la libertà religiosa?

«Koszalin, proprio in quanto “città nuova”, nei propositi del governo doveva diventare un modello di città atea, ma ciò non toglie che nel 1972 venisse istituita la diocesi e che in città ci fossero, fino agli anni ’80, due parrocchie e altre 15 chiese cristiane, tra luterane, ortodosse, avventiste ecc. Questo pluralismo ha sicuramente segnato anche la mia fede».

Gli anni ’80 sono gli anni della sua adolescenza e anche quelli dei grandi scioperi a Danzica e della crescita impetuosa di Solidarnosc.

«Si, quegli anni sono stati fondamentali per la Polonia e per me. Tutti i partiti e tutti gli oppositori, credenti e non credenti, cercavano un riferimento nella chiesa, e nella mia personale scelta di fede ha sicuramente influito l’uccisione di don Jerzy Popieluszko, il cappellano di Solidarnosc, da parte della polizia».

Quindi il seminario.

«Vi sono entrato nell’88. Per me il prete era la figura di un uomo che realizzava pienamente i propri valori, e assieme alla sua gente contribuiva a cambiare un po’ il mondo. Ma in seminario (uno dei più piccoli, eravamo solo in 150) ho trovato una rigidità quasi militare, e quei valori iniziali si sono offuscati; ho perso un po’ di quell’entusiasmo che mi aveva accompagnato all’inizio. Ma quando sono uscito dal seminario ho capito che la mia strada era quella che avevo immaginato anni prima».

Qual è stato il suo primo impatto con l’Italia?

«L’ospitalità di don Antonio, a S. Prospero, e poi le parole di don Santucci, quando decisi di rientrare in seminario, a Pisa. Prima di pensare agli esami – mi disse – cerca di capire e amare questa tua nuova realtà. Tante cose ti sembreranno strane o ridicole, difficili da capire, ma tu cerca di capirle. Poi è venuto tutto il resto: diacono dal ’95, dal 2001 parroco a Ripa e Pozzi, in Versilia, e dal 2005 qui a San Giusto».

Quali differenze ha trovato tra situazione polacca e quella italiana?

«Il senso religioso e la vita di parrocchia sono molto più sentiti in Polonia anche se, pure lì, le cose stanno cambiando. In Polonia comunque ero abituato a vedere chiese affollate. Qui invece uno dei compiti del prete è quello di andare alla ricerca delle persone. Un’altra differenza – questa volta a favore dell’Italia – è nel tipo di relazione che si instaura tra la gente e il prete. In Polonia il prete è apprezzato in quanto prete, a prescindere. In Italia, invece, le relazioni sono molto più libere, c’è un contatto con tutti, e il prete è apprezzato per quello che riesce a dare. È uno dei motivi che mi hanno convinto a rimanere qua».

Le è stato quindi utili conoscere due realtà in parte diverse.

«Conoscere due esperienze può aprire l’orizzonte, a patto che si faccia lo sforzo di capire e rispettare la storia, la cultura – sia in positivo, sia in negativo – del proprio nuovo paese. Le difficoltà che possono incontrare i preti stranieri derivano dall’incapacità di trovare un equilibrio tra la loro esperienza d’origine e quella italiana».

Andrea Zanotto

Don Jean Basile ritorna in Congo:«Ringrazio Dio per l’esperienza fatta in questi sette anni in Italia»Ringrazio Dio, Fonte di ogni vita e ogni bene, Maestro della storia, per la ricchissima esperienza fatta in questi 7 anni di studio e missione in Italia». Don Jean Basile Mavungu Khoto, prete della diocesi di Boma in Congo, è al termine della sua esperienza di studio e di servizio pastorale: fra poco rientrerà nel suo Paese. Ma questi anni, dice, sono stati un granmde arricchimento, dal punto di vista umano e cristiano. «Ho imparato molte cose, sia attraverso le esperienze bellissime sia attraverso quelle meno belle. Vivere in concreto l’universalità della Chiesa, vissuta in maniera forte all’università a Roma, ma anche qui a Firenze, fa crescere la fede e allarga il cuore. Vedere e toccare tante cose della la storia della Chiesa imparata anni fa in seminario è un insegnamento che porterò con me»

Don Jean Basile è nato nel 1967 ed è stato ordinato sacerdote il 21 agosto 1994. Dopo 6 anni di apostolato in Congo, nel 2000 è giunto a Roma per continuare i suoi studi in teologia ed iscriversi alla Pontificia Università Gregoriana di Roma per il dottorato. Nell’estate 2002, su richiesta del suo vescovo di Boma, fu accolto dalla diocesi di Firenze e mandato come vicario parrocchiale alla parrocchia di San Marco Vecchio, combinando l’attività pastorale in parrocchia allo studio per la tesi di dottorato. Nell’estate 2003 fu spostato a Santa Maria a Mercatale Val di Pesa come vicario parrocchiale. Lo scorso 10 gennaio ha discusso la tesi di dottorato in teologia biblica, e sabato 15 settembre ha celebrato nella chiesa di Mercatale la Messa di ringraziamento per la missione svolta in Italia. A ottobre tornerà in Congo dove sarà professore di Nuovo Testamento nel seminario provinciale di Mayidi a Kisantu. «Ringrazio l’Arcivescovo di Firenze, il Cardinale Ennio Antonelli, per avere risposto positivamente alla domanda del mio Vescovo, e mi auguro che l’esperienza di cooperazione tra Chiese sorelle vissuta in questi 5 anni nella Chiesa fiorentina possa fruttificare».