Toscana
Prematuri, l’autogoal degli scienziati
di Simone Pitossi
Un convegno davvero a senso unico o quasi. E con molte defezioni eccellenti: l’assessore regionale per il diritto alla salute Enrico Rossi (vedi intervento: Un convegno squilibrato e indifferente sui valori), il direttore del Meyer Paolo Morello, il neonatologo Paolo Mosca, il preside della Facoltà di medicina di Firenze Gianfranco Gensini. Insomma, alla due giorni organizzata al Meyer di Firenze su «Le sfide della neonatologia alla bioetica e alla società: le buone ragioni della Carta di Firenze» a due anni e mezzo dalla presentazione non c’è stata partita. Un po’ perché le tesi sostenute erano incredibili, un po’ per la mancanza del confronto. E a farne le spese è stato sempre il più indifeso: il neonato e in particolare quello prematuro.
Un esempio? Gianfranco Vazzoler, primario presso l’Ospedale civile e policlinico di Pordenone, in un passaggio della sua relazione sul già discutibile tema «Il neonato è persona?» ha affermato che «i feti, i neonati, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in uno stato vegetativo permanente cioè senza speranza, costituiscono esempi di non-persone umane» aggiungendo che «tali entità sono membri della specie umana ma non sono persone». Secondo Vazzoler, «il neonato non è una persona perché persona è chi ha autocoscienza, senso morale minimo e razionalità». E parlando di rianimazione dei prematuri il bioeticista ha aggiunto: «Alcuni neonati sono neurologicamente e fisicamente così compromessi da essere impossibilitati ad acquisire il loro potenziale di conquista di diritti; non potranno mai diventare persone e quindi il loro miglior interesse non sta nel perseguire la vita». Tesi davvero insostenibili e offensive. Come quelle di Sergio Bartolommei, presidente della Consulta di bioetica di Pisa e docente di bioetica all’ateneo pisano. «La cultura della vita ha detto non va confusa con il feticismo della vita. La sopravvivenza del neonato prematuro non può essere un criterio per rovinargli la vita. Se la situazione è di grande incertezza ha continuato non si capisce perché lo si debba rianimare a tutti i costi e non invece accompagnarlo dolcemente alla fine dell’esistenza». E nel decidere «se sospendere o iniziare i trattamenti ha concluso il medico non può fidarsi solo della sua scienza e coscienza ma deve coinvolgere e confrontarsi con i genitori. Solo loro possono decidere se accompagnare il neonato verso la morte o se rianimarlo».
Si è distinta in questo quadro «monocorde» Marina Cuttini, responsabile dell’Unità operativa di epidemiologia dell’ospedale Bambino Gesù di Roma, che ha presentato la ricerca «Action follow-up». Nello studio sono stati coinvolti 3.040 bambini nati tra la 22ª e la 31ª settimana di gestazione in sei regioni italiane (anche in Toscana), e ricoverati in terapia intensiva neonatale. Di questi bambini, 1.174 sono stati seguiti fino al compimento del secondo anno. Le conclusioni? I bambini nati gravemente prematuri (sotto le 31 settimane), anche se sono fragilissimi, grazie alle cure intensive hanno sempre maggiori possibilità di sopravvivenza anche ad età gestazionali molto basse (22-25 settimane). E, a due anni, per la maggior parte non mostrano disabilità neurosensoriali gravi. «Secondo quanto abbiamo osservato ha spiegato Cuttini la sopravvivenza di questi bimbi fino alla dimissione dalla terapia intensiva è dell’83%, ma diminuisce con l’età gestazionale: ad esempio quelli nati a 25 settimane sopravvivono nel 50% dei casi, mentre dopo la 28° settimana la sopravvivenza è superiore al 90%». «A due anni, inoltre ha continuato l’epidemiologa questi bambini nel 92% dei casi non mostrano disabilità neurosensoriali gravi. Il restante 8% ha almeno una disabilità». Più bassa è l’età gestazionale, più aumenta il rischio di disabilità: «Un bambino sopravvissuto con età gestazionale tra 22 e 25 settimane ha il 21% di probabilità di presentare una grave disabilità neurosensoriale». Confrontando il dato italiano con quello olandese emerge una sostanziale differenza. La percentuale di sopravvivenza in Italia per i nati di 23 settimane è del 17%, in Olanda è del 2%; addirittura nel caso dei nati a 24 settimane il dato italiano di sopravvivenza è del 47% contro il 3% olandese. La ragione è che in Olanda, come ha spiegato il dottor Eduard Verhagen, spesso si decide di non rianimare questi neonati secondo lui «senza scampo» o di staccare le macchine che li tengono in vita perché andrebbero incontro a «gravi danni neurologici». Il medico olandese è tra gli ideatori della «carta di Groningen» dove si illustra l’assistenza di «fine vita» per i neonati e, in caso di certe malattie, si ammette addirittura l’eutanasia sui neonati. «L’eutanasia ha detto a margine del convegno è una deliberata interruzione della vita sul paziente che sta soffrendo tremendamente e che ha una prognosi infausta, ma si tratta di casi rari e delicati». «Oggi l’eutanasia sui neonati ha concluso il medico olandese grazie alle diagnosi prenatali è stata azzerata». Insomma il problema viene risolto alla radice, con l’aborto. E a farne le spese è sempre il bambino. Giuseppe Buonocore, direttore di pediatria neonatale delle Scotte a Siena, non è sulla stessa lunghezza d’onda: «Nessuno, se non il medico, davanti a ogni singolo caso dell’area grigia fra le 22 e le 24-25 settimane, può dire l’ultima parola». «Un giorno in più o in meno ha concluso fa una differenza del 7%, quanto a probabilità di sopravvivenza, e non c’è linea guida che tenga di fronte alle variabili che si possono presentare». E anche la testimonianza di Laura Brizzi, ginecologa del Meyer e madre di una bimba nata prematura e oggi alle prese con difficoltà motorie, ha posto un interrogativo diverso, riguardante la capacità della società di accogliere veramente coloro che, per via della disabilità, impegnano la famiglia per tutta la vita. «È etico lasciare il peso solo sui genitori?», si è chiesta denunciando le incredibili trafile burocratiche che la bambina ha dovuto subire per avere gli ausili previsti («quattro visite con il bambino sempre presente e quattro successive code alla Asl», oltre a «14 visite d’invalidità in 13 anni di vita»). E poi la mancanza di un fisioterapista infantile, capace cioè di un rapporto adeguato con i bambini, o ancora quella di un neuropsichiatra stabile, che obbliga ogni volta il piccolo disabile a far nuovamente vedere quello che non può fare. «Il mio intervento ha quindi concluso la Brizzi vuol essere un appello a spostare il dibattito per investire del problema la società. Per fare questo non serve né la rassegnazione né il pietismo ed è questa la sfida vera anche alla Chiesa». Sfida che può essere tranquillamente raccolta, perché giocata sulla vita e non sulla morte come ipotetico «miglior interesse del bambino», osteggiato dalla «volontà di far prevalere impostazioni ideologiche quando la gente che abbiamo davanti soffre», come ha affermato il presidente dell’Ordine dei medici di Firenze Antonio Panti. Concetti, questi, che sono riecheggiati più volte nel pomeriggio conclusivo, in cui sono stati presi in esame gli aspetti giuridici del problema sottolineando nuovamente la necessità che la decisione di intervenire o meno venga concordata con i genitori, senza tuttavia approfondire i problemi legati alla drammaticità di una tale scelta in un momento già di per sé così critico. E certamente il triste e assurdo caso del piccolo Davide, raccontato dalla madre Maria Rita Vigilante, oltre a sollevare un senso di commossa solidarietà non ha contribuito più di tanto a far chiarezza sulla delicatezza della questione. La presenza di una gravissima malformazione congenita come l’assenza dei reni e di tutto l’apparato urinario, messa a confronto con i «normali» casi di parti prematuri, poneva ovviamente un quadro di partenza diverso. Alla fine non è comunque venuta meno l’impressione che tale coinvolgimento giustificato anche con l’aspetto «sperimentale» che avrebbero cure intensive ancora prive di evidenza scientifica sia anzitutto un elegante modo per scaricare la propria responsabilità e coscienza di medico, qualunque sia la decisione presa.
hanno collaborato Lorella Pellis e Marco Lapi
Le questioni della vita e della morte misurate col metro dell’utilitarismo
Firenze è la città dell’Ospedale degli Innocenti ove «la pietas umana», religiosa e civile, seppe dedicare alla vita nascente in difficoltà uno degli edifici più belli per il quale impegnò il migliore degli architetti dell’epoca. In questi giorni ha suscitato vasta eco di polemiche un convegno sulle «sfide della neonatologia e … le buone ragioni della Carta di Firenze». Il medico olandese Eduard Verhagen, ideatore del protocollo di Groningen, recante le linee guida per l’eutanasia dei bambini la cui futura qualità della vita non si ritiene degna di essere vissuta, ha affrontato il tema «perché decisioni di fine vita all’inizio della vita?». E il professor Gianfranco Vazzoler ha tenuto la relazione: «Il neonato è persona?».
Il convegno prendeva l’avvio dalla Carta di Firenze presentata al pubblico il 18 febbraio 2006, della quale si vuole difendere la validità. Per la Carta di Firenze la rianimazione deve avvenire di comune accordo tra il neonatologo e i genitori perché prima si debbono accertare condizioni di salute accettabili. Tali tesi sono state contestate dalla società italiana di neonatologia e anche a livello di Consiglio Superiore di Sanità e il professor Bellieni ha scritto: «Non esiste una vita non giusta, ogni nato ha diritto alle cure e ogni famiglia di persona disabile ha già dalla nascita diritto alla massima assistenza da parte della società e dello Stato. Queste cure si debbono offrire a chiunque abbia serie possibilità di vita in seguito al nostro intervento e un neonato dalle 23 settimane ha serie possibilità di sopravvivere trattandolo come un altro paziente. La missione è sempre quella di curare, la rinunzia a salvare una vita umana in previsione di un ipotetico handicap è sempre una sconfitta. Qualunque paziente ha diritto ad essere rianimato e assistito nel migliore dei modi indipendentemente dal suo livello di abilità o disabilità». Anche se questo significa che non ci si deve accanire quando non c’è seria possibilità di sopravvivenza.
La valutazione di queste situazioni la tradizione di civiltà a cui apparteniamo le ha assegnate al medico, in scienza e coscienza al servizio della vita, scolpendole nel giuramento di Ippocrate fino dal IV° secolo a.c.
Al di là degli aspetti sanitari il convegno del Meyer è il termometro che registra come cambia la cultura nei confronti dei bambini nati e riguardo alla vita in generale, indicando la china paurosa verso la quale ci stiamo indirizzando. Si ragiona per le questioni di inizio e di fine vita, togliendole dalla dimensione di sacralità e di mistero nelle quali eravamo soliti collocarle e le misuriamo sul metro di un utilitarismo contingente ed efficientista che vuole togliere di mezzo tutto ciò che disturba o crea problemi: persone o cose.
Guai se non siamo capaci di riproporre punti fermi in una deriva di relativismo assoluto e il primo punto fermo è quello del valore della vita. Su questo piano sono state indicatrici e premonitrici le parole del nuovo Arcivescovo di Firenze pronunziate proprio al Meyer qualche giorno fa: «è inquietante che nella società sorgano interrogativi come se un neonato sia una persona o quale sia una vita degna di essere vissuta».
di Angelo Passaleva
Quando mi sono laureato, 1959, era problematica la sopravvivenza di neonati alla ventottesima settimana di gestazione. La problematicità si è spostata, oggi, alle 22 – 24 settimane. È probabile che nel futuro non lontano anche questa età gestazionale non rappresenti più un problema perché la ricerca e la tecnologia, anche in questo campo, progrediscono rapidamente. Esiste sicuramente, almeno per ora, un limite inferiore non valicabile, ma non è questo il problema, né è possibile discuterne in questa sede. Preoccupano altre cose.
1) Va ribadito, anche se sembra scontato, che le «Carte» o le «Linee guida» non sono valori assoluti applicabili sempre ed ovunque. Vanno conosciute e tenute presenti, ma ogni paziente ha una tale serie di variabili che lo rendono unico, indipendentemente da ciò che dicono le statistiche o le previsioni.
2) Le decisioni per ogni neonato prematuro dovrebbero sempre tendere a salvaguardare la vita, a prescindere dai costi economici o sociali: la vita umana non ha prezzo.
3) I veri pericoli della nostra società vengono dal criterio di valutazione della vita umana. Se parliamo in termini di qualità sono inevitabili le gradazioni di valore: dai livelli eccellenti a quelli più bassi e per i quali non vale più la pena di vivere o di lasciar vivere. Ma chi stabilisce le graduatorie e in base a quali parametri? Se il criterio è, invece, quello della dignità, non si fanno più distinzioni. Ogni vita ha un valore intrinseco che la rende parimente degna di essere tutelata e salvaguardata indipendentemente dalle condizioni in cui si trova. Il riconoscimento della pari dignità di ogni vita umana (e non della sua qualità) è la vera base della democrazia e della convivenza civile. Come si può pensare, allora, che un neonato, per il solo fatto che potrebbe essere disabile, non sia degno di vivere? Certo tutti ci auguriamo e speriamo, giustamente, che ogni bambino e bambina, ma anche che tutti gli anziani, siano belli, robusti, sani, intelligenti, autosufficienti e magari anche ricchi. Ognuno penserebbe per sé, senza bisogno di tutele sociali.
4) Purtroppo non è sempre così. Le sofferenze e le fatiche di tante famiglie che devono farsi carico di condizioni difficili e che possono diventare quasi insopportabili esistono, si conoscono e dovremmo fare di tutto per evitarle. Ma la risposta è uccidere (eutanasia), o piuttosto essere realmente solidali, sia con leggi giuste sia con un vero e generoso impegno personale?