Toscana
Prato, profughi ospitati in città vittime di caporalato nel Chianti
Reclutavano profughi richiedenti asilo ospitati nelle strutture di accoglienza di Prato, approfittando del loro stato di necessità e li avviavano, in condizioni di sfruttamento, anche attraverso violenze intimidazioni e minacce, allo svolgimento di attività agricole sottopagate in aziende vitivinicole del Chianti Fiorentino, «culla della civiltà europea» – come recita il decreto di perquisizione firmato dal sostituto procuratore Antonio Sangermano, titolare delle indagini.
L’inchiesta della Procura di Prato, portata avanti dalla Digos, in collaborazione con Polizia stradale, Corpo Forestale dello Stato e Guardia di Finanza, vede indagate 12 persone: nove cittadini pakistani per i quali è contestata l’associazione a delinquere e tre consulenti del lavoro pratesi, che dovranno rispondere per la prima volta a Prato di concorso esterno nell’associazione, per via del contributo fornito nella falsificazione di documenti utili alla permanenza in Italia, come buste paga e rinnovo del permesso di soggiorno. Vari i reati contestati, tra cui intermediazione illecita nel reclutamento dei cittadini extracomunitari.
Al centro del giro di caporalato c’era una coppia di coniugi pakistani: lui 38 anni, lei 43 anni, titolari di una serie di ditte fantasma, che sulla carta potevano contare su 160 dipendenti, ma poi presentavano dichiarazioni dei redditi pari a zero. Ancora più ampio il giro di sfruttamento dei braccianti agricoli, che venivano reclutati tra cittadini extracomunitari e richiedenti asilo, ospiti in particolare della struttura in Santa Caterina gestita da Cooperativa 22, per conto dell’Opera Santa Rita. Sono stati proprio gli operatori del Santa Rita ad accorgersi dell’assenza di diversi ospiti durante la giornata e a spingere due delle vittime del caporalato a denunciare alla polizia quanto stavano subendo. Da lì, nello scorso settembre, sono partite le indagini della Digos.
Come funzionava il giro – I profughi si trovavano alle 5 del mattino in via Carlo Marx, venivano stipati su furgoni e camion telonati e portati nei campi di una prestigiosa azienda vitivinicola di Tavarnelle Val di Pesa e di altre tre imprese dell’indotto. Qui, a smistarli, altri pachistani, che vigilavano sul lavoro e non di rado minacciavano e picchiavano i richiedenti asilo, costretti talora a lavorare perfino scalzi nei campi. Particolare crudeltà era indirizzata agli africani, più blando il trattamento verso i propri connazionali. La sera, dopo 12 ore di lavoro ininterrotto, venivano riportati indietro. Anche alcuni tra i caporali a loro volta erano ospiti di strutture di accoglienza.
Nel corso delle perquisizioni, a cui hanno partecipato 2000 agenti, è stato sequestrato diverso materiale, sia negli studi professionali che nelle aziende del vino, alle quali al momento non è contestato nulla: non ci sono indagati tra i titolari, né ripercussioni sulla qualità dei prodotti. Le imprese del Chianti si affidavano ai pachistani per il reclutamento dei lavoratori, ma la paga oraria riconosciuta dalle aziende era più alta dei 4 euro l’ora che venivano corrisposti dai pachistani ai braccianti.