Toscana

Prato a rischio, le aziende prendono la via dell’Est

di Ennio CicaliPer ora sono solo un caso limitato, una quarantina di aziende su qualche migliaio, ma rischiano di diventare un problema. Si tratta delle aziende, per lo più di Prato, che hanno scelto di trasferire una parte del loro sistema produttivo – da qui il termine «delocalizzare» – nei paesi dell’est dove il costo del lavoro è più basso. Meta preferita la Romania, prossima a entrare nell’Unione europea, dove il costo del lavoro è di un sesto inferiore a quello italiano, anche se di conseguenza la produttività è inferiore del 20–30 per cento. Altri hanno scelto la Bulgaria o la Polonia, anche lì i costi di produzione sono minori.

È uno degli aspetti della situazione attuale del sistema produttivo pratese che vede il 25 per cento delle imprese andare bene, un altro 25 in difficoltà, e il restante 50 vivere alla giornata. «Non vogliamo togliere lavoro a nessuno, ma recuperare le quote di mercato perdute nel segmento medio basso, che non è più possibile produrre in Italia a prezzi competitivi» spiegano gli industriali. Il discorso non fa una grinza, anche se negli ultimi mesi l’occupazione ha perso un migliaio di posti di lavoro.

A farne le spese sono soprattutto le aziende che lavorano per conto terzi, soprattutto piccole e artigiani, e quelle dell’indotto. Per queste imprese i sindacati hanno richiesto un protocollo che contempli una serie di ammortizzatori sociali per le aziende sotto i 15 dipendenti. La globalizzazione e gli avvenimenti internazionali, non ultima la crisi dell’area del dollaro, stanno cambiando la scena economica mondiale, costringendo molte industrie a ridisegnare le proprie strategie. D’altra parte, gli industriali pratesi non sono nuovi alla delocalizzazione delle proprie attività nei paesi dell’est. Ci provò Piero Picchi nel 1997, trasferendo in Polonia il reparto filatura. Qualcuno ha preferito la Turchia, un modo per essere più vicino al mercato russo e asiatico. Altri imprenditori pratesi, invece, hanno scelto una delocalizzazione casalinga affidando alcune lavorazioni a ditte di immigrati, per lo più cinesi, che garantiscono tempi di consegna veloci e costi limitati.

Il contenimento dei costi e l’apertura di nuovi mercati è all’origine della delocalizzazione. C’è chi, invece, preferisce tentare altre vie, è il caso di Luigi Guarducci del lanificio Europa che ha allo studio il prolungamento della propria filiera di produzione, dal tessuto al capo finito, riducendo i passaggi e, nello stesso tempo, offrire ai propri clienti un prodotto migliore a prezzi competitivi. «Demonizzare la delocalizzazione non si può – afferma Chiara Malinconi, segretaria provinciale della Femca Cisl (il sindacato dei lavoratori tessili) pratese – si tratta di coglierne la positività e l’opportunità di crescita per alcuni paesi. In ogni caso, a Prato deve rimanere il cervello delle imprese».

La scelta di trasferire all’estero parte della propria produzione è uno degli aspetti della crisi che sta vivendo il made in Italy, del quale Prato è una delle componenti essenziali. In particolare, si lamenta la mancanza di una politica industriale, soprattutto da parte del governo, che salvaguardi il settore, vitale per la nostra economia. Si chiede, tra l’altro, che sia prevista la tracciabilità del prodotto, per conoscere esattamente da quale paese proviene e le modalità di lavorazione, non ultimo le condizioni di lavoro con cui è stato confezionato. La delocalizzazione interessa per ora solo Prato, anche si hanno segnali analoghi in altre parti della Toscana. In particolare, si ha il caso di alcune aziende di pelletteria, uscite e dopo poco rientrate.