Opinioni & Commenti

Possiamo salvare il mondo dalla guerra e dall’ingiustizia

Il messaggio del Papa per la giornata della pace di quest’anno (testo integrale) prende l’avvio dalla beatitudine: «Beati i facitori di pace perché saranno chiamati figli di Dio». E il Papa aggiunge subito che le beatitudini non sono solo un premio nell’altra vita, non si raggiungono solo salendo in Cielo o aspettando che il Cielo scenda sulla terra.

Le beatitudini, scrive il Papa, sono «dono messianico e opera umana ad un tempo». Il che vuol dire che il Regno di Dio può essere preparato anche partendo da questa terra e che questo mondo non è condannato ad essere solo il regno del male per sempre. Siamo fuori qui da quel pessimismo sulla storia umana per cui, come diceva ad esempio Lutero «il Diavolo non teme potere alcuno su questa terra» e la giustizia quaggiù può essere ricercata solo con la forza delle istituzioni, con la violenza organizzata del potere e della guerra.  In questa visione il cristiano con le sue virtù e al limite con le sue beatitudini può solo cercare di salvarsi l’anima, ma è inutile che cerchi di salvare il mondo e la guerra, come spesso si sente dire ancora oggi, accompagnerà l’uomo fino alla fine dell’uomo.

Benedetto XVI dice invece che «la pace è possibile» e che si può già essere chiamati figli Dio anche dentro la storia umana. A condizione che si sia capaci di cambiare molta parte del modo di pensare, di vivere, di considerare la società e di organizzare l’economia del mondo di oggi si può raggiungere la pace. Al laico questa visione globale del mondo considerata come la premessa indispensabile per potere conquistare la pace potrà sembrare un pretesto per legare a un obiettivo così ambito la difesa di una serie di temi su cui il Papa non ha mai cessato di insistere da sempre. E tuttavia anche Gandhi sosteneva che nemmeno il non violento poteva diventare tale dall’oggi al domani. Anche lui aveva bisogno di una conversione globale, di un addestramento più lungo e di un eroismo più rigoroso e generoso di quello del guerriero.

L’attenzione alla dimensione trascendentale, dice il Papa, è un grande contributo alla pace. Ed è vero che in questa prospettiva non solo c’è un Dio che giudica, ma la vita dell’uomo acquista un valore incommensurabile perché questa creatura è immagine di Dio e con la sua presenza e conoscenza fa di fatto esistere un mondo altrimenti incosciente di sé. La esistenza di una unica famiglia umana che viene proclamata per la prima volta nella storia con il Vangelo, anche se si afferma lentamente fra gli stessi cristiani contro i comunitarismi limitati ai singoli stati e alle singole nazioni, è senza dubbio la prima consapevolezza che si deve trovare sulla via della pace per comprenderla prima ancora di cercarla. Il rispetto della vita umana anche di fronte all’aborto e all’eutanasia è di fatto una educazione alla pace perché, al di là delle motivazioni con cui si può cercare di giustificare questi gesti, è impossibile dimenticare che quasi tutte le guerre sono state incentivate e giustificate attraverso il razzismo esplicito o latente verso un nemico che aveva meno ragione di vivere di noi perché in fondo considerato meno uomo di noi. Così la salvaguardia della famiglia dove si imparano i primi rapporti interpersonali è di fatto il primo luogo dove si deve imparare la convivenza e l’aiuto reciproco sulla via della più universale solidarietà.

Allo stesso modo il relativismo per cui non esistono obblighi morali assoluti, ma tutto può essere fatto o non fatto a seconda delle opinioni,delle situazioni e delle condizioni, è il modo più veloce anche per insegnare all’uomo che tutto è permesso senza dimenticare che alla fine nel fondo più profondo la guerra è appunto il trionfo finale del «tutto è permesso». Attraverso il relativismo l’egoismo umano è coltivato nel modo migliore offrendo all’uomo una serie infinita di sì come se questa fosse la sua libertà. Camus, che pure era ateo, diceva invece che la libertà quasi sempre comincia con un no che libera la nostra coscienza dalla massificazione e dal consumismo di un mondo che vuole maneggiarla come un pulsante. Anche il richiamo del Papa al perdono come terapia per ritrovare e mantenere la pace non è più un semplice racconto di una parabola evangelica. A cominciare dalla Commissione per la Riconciliazione istituita in Sudafrica venti anni fa per pacificare bianchi e neri dopo la fine dell’apartheid sono orma decine le forme di perdono collettivo con cui soprattutto in Africa e in America Latina si è voluto porre fine alle guerre e alle vendette interminabili.

«L’operatore di pace – scrive il Papa – e colui che cerca il bene degli altri» e «l’etica della pace è etica della comunione e della condivisione». Si potrebbe riassumere il messaggio del Papa dicendo che è scritto in prima persona plurale con la logica del «noi» anziché dell’«io». E anche laddove il Papa si avventura sul piano della globalizzazione e dell’economia del nostro tempo, le sue parole, anche se mirano in alto, non appaiono mai una predica nel deserto, né una utopia che non può uscire dalla sacrestia. Al contrario molte delle preoccupazioni del Papa sono già preoccupazioni anche dei governi e diverse delle vie che il Papa suggerisce sono vie che alcuni, anche se come pionieri, cominciano a percorrere. Contro un’economia che vive producendo e vendendo debiti, interessi e ipoteche anche inesistenti, che non scambia solo moneta vera, ma immaginaria, il Papa non solo richiama al ritorno all’economia reale, ma anche a forme di economia in cui rispetto alla logica del profitto, si recuperi la logica del «dono», dello «scambio solidale», della «economia responsabile». Sono esperienze non solo già documentate dagli antropologi in società precapitalistiche, ma attività che animano sempre più il volontariato, e iniziative sempre più numerose di solidarietà messe in atto da imprenditori a cui si attribuisce, ad esempio, buona parte del relativo miglioramento dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo negli ultimi anni.

Il Papa invita anche a far prevalere il diritto al lavoro sulla logica della competitività e del profitto in quello che a prima vista potrebbe sembrare un richiamo al vecchio stato assistenziale. Al contrario, in un periodo in cui la disoccupazione sta cessando di essere un fenomeno congiunturale che si poteva affrontare con i vecchi arnesi delle indennità e dei prepensionamenti e diventa un fenomeno strutturale che non guarisce da solo e non scompare per la logica del mercato, buona parte degli stati europei si stanno ponendo il problema di creare stabilmente posti di lavoro con il loro intervento anche se solo la Svezia finora ha ottenuto buoni risultati su questo piano. Sono tentativi che avvertono seppure confusamente un vincolo che il Papa rivendica: che cioè la crescita economica non può essere ottenuta sopprimendo i diritti fra cui essenziale è il diritto al lavoro.